Critica culturale 04 del 08.02.1999

Domanda: “Che significa il termine cultura?”. Abbiamo sempre detto che è bene andare alla ricerca dell’etimo della parola e coglierla là dove nasce, per evitare che prenda subito brutte strade. La parola “cultura” viene dal verbo latino “colo” (colo-colis-colui-cultum-colere, terza coniugazione), che tradotto letteralmente vuol dire “coltivare”. In termini ancora più stringati vuol dire “curare” (curare perché cresca, curare la crescita di qualcosa, appassionarsi alla crescita di qualcosa). Quindi la cultura ha a che fare con tutte le azioni indispensabili perché una cosa cresca secondo la sua essenza.

Cultura deriva propriamente dal participio cultura, culturus, cultura, culturum, che sta ad indicare una azione che si svolge sempre nel futuro. Vista così, la cultura, potrebbe sembrare un qualcosa di altamente positivo, perché, per esempio, la cultura è la cura che ci metto per far crescere una pianta; la parola “coltivazione” viene lo stesso dal verbo “colo”; il “culto” divino viene sempre dal verbo “colo”, che vuol dire far crescere Dio, perché si pensa che attraverso il culto sacro noi facciamo crescere la divinità, per cui se non avessimo il culto verso Dio non faremmo crescere, ma decrescere e sminuire sempre più l’idea di Dio.

Il concetto di cultura comprende, innanzitutto, gli atti di giudizio (decidere cosa fare e cosa non fare) e quindi gli atti operativi necessari per far crescere una determinata realtà. A questo punto potremmo dire che la cultura è un fatto altamente positivo.

In realtà bisogna fare attenzione, perché è necessario inserire la cultura all’interno di una mentalità, cioè di un pensiero filosofico, poiché i processi culturali vengono messi in atto a partire da un determinato modo di pensare. La cultura è come il ragionamento. Il ragionamento può filare liscio in sé stesso se è impostato in maniera coerente. Questo è il problema che incontrano tutti quelli che iniziano a studiare filosofia: infatti, dopo aver letto i libri, si rendono conto che tutti hanno ragione e tutti hanno ragione perché i filosofi sono in grado di sviluppare il discorso in maniera coerente.

Ma il fatto che il discorso sia coerente, logico, non implica che sia vero: bisogna andare sempre a sondare le premesse da cui partono, infatti, molto spesso, le premesse vengono sottaciute. Se le premesse vengono fuori, allora è un manicomio, perché mostrare che le premesse sono vere è un’ira di Dio: è più facile impostare un discorso che dimostrare la verità assoluta delle sue premesse.

La cultura non si deve giudicare in astratto, ma a partire dal pensiero dominante in cui si sviluppa. La cultura è una specie di articolazione del discorso. Ma la corretta articolazione del discorso non è una garanzia che il discorso stesso sia vero, dice solo che il discorso è corretto.

La cultura occidentale è correttissima, è di una logica spaventosa, perché ha chiarito fino in fondo la propria articolazione (il proprio ragionamento), ma ha sottaciuto le proprie premesse, ha cercato di non farle venire a galla, perché se esse venissero a galla tutto il discorso, anche sé logico, si mostrerebbe in tutta la sua falsità.

Non si può giudicare la cultura dalla cultura, ma la si deve giudicare dal pensiero dominante da cui parte e di cui è l’esplicitazione. La coscienza dei fondamenti della cultura occidentale è diventata l’inconscio dell’Occidente. L’inconscio è ciò che sta alla base del nostro agire, sta alla base della nostra prassi, ma che non vogliamo che emerga, perché se emergesse sarebbe spaventoso, distruggerebbe la stessa prassi. L’inconscio dell’Occidente è contraddittorio, poiché è allo stesso tempo fondamento e distruzione della sua prassi, cioè del suo agire. L’Occidente deve mettere sempre in atto un’opera di rimozione dell’inconscio.

Perché vi ho parlato dell’inconscio dell’Occidente, perché l’Oriente non ha fatto ancora questo passo. L’Oriente è rimasto ancora in questo apparato concettuale piuttosto mitico, mitologico, perché nasconde la verità, impedisce alla propria coscienza di venire fuori per cui rimane ambiguo ed è proprio questa ambiguità che affascina il mondo occidentale. La cultura orientale è come il bambino che non vuole ancora affacciarsi all’età adolescenziale. In Oriente si vive un tempo “estatico”, in Occidente un tempo “cronologico”. Tuttavia, con tutti i processi di globalizzazione che stanno avvenendo (la globalizzazione non è altro che l’esportazione del pensiero occidentale) anche l’Oriente sta, a poco a poco, facendo suoi i fondamenti della cultura occidentale. Per cui l’Oriente non si è ancora perduto, ma non si è neanche ancora salvato, proprio perché non ha preso alcuna decisione.