Etica 02 del 20.02.1997

Secondo Hegel l’Etica è il “principio dell’azione immediata”, mentre la Morale è il “principio dell’azione riflessa”. Non è una differenza o una opposizione di poco conto, perché guardando i campi di applicazione di questa differenza fra etica e morale – etica della sessualità o morale della sessualità, etica del capitalismo o morale del capitalismo, etica della scienza o morale della scienza – ci rendiamo conto che le conseguenze sono notevoli. Per esempio, nell’etica della sessualità il principio immediato dell’azione è solitamente chiamato “istinto”. L’istinto è la copertura della nostra ignoranza e della nostra pigrizia. La spontaneità è un comportamento che ci fa apparire poco responsabili in quanto ci sgrava dai nostri principi e ci serve come copertura delle nostre colpe e carenze. La spontaneità è una copertura delle motivazioni varie, che ci sfuggono, perché vogliamo che ci sfuggano, di certi nostri comportamenti, che appaiono spontanei. Quando dico che un mio comportamento è spontaneo mi sto tirando fuori, non mi sento più responsabile, perché è spontaneo, è immediato, è istintivo. L’istinto materno, che grande sciocchezza! La maternità è un fatto morale, non istintivo.

Una donna decide di essere madre, perciò si impegna ad essere madre, riflette. È un fatto morale la maternità – il rapporto madre-figlio – non un fatto di istinto. Quindi, come si può vedere, cambiano le cose a seconda che l’impostazione che diamo sia etica o morale, poiché l’etica è il principio dell’azione immediata, la morale è il principio dell’azione riflessa.

Ormai non si parla più di morale, ma di etica: bioetica, etica della scienza, etica del profitto, ecc. Ogni campo ha la sua etica, cioè quello che si cerca di individuare come principio immediato di azione.

Ma come mai e quando è iniziato questo boom dell’etica? Quando è venuta fuori l’etica? Qual è stata la congiuntura sociale che ha permesso lo sviluppo e ha richiesto l’esigenza di questa etica?

È stata una situazione sociale caratterizzata dal fallimento della Legge e della Norma.

Dal ‘68 in poi è andato tutto a rotoli, è rimasto un vuoto grandissimo di pensiero, perché tutto era ideologico: costruzioni politiche, religiose, filosofiche, erano ritenute delle pure ideologie, cioè coperture. Non si riusciva più a mettere su una dottrina, un sistema di pensiero che subito veniva tacciato di “ideologia”. Cioè si esercitava una critica radicale verso qualsiasi forma di pensiero, accusando tutto di essere “ideologia”.

La morale o era espressione, come diceva Marx, della classe dominata per tenere buona la classe dominante, o era, come diceva Nietzsche, l’espressione dei deboli i quali non trovando altro sistema per difendersi, invocano la morale e Dio.

Tutto ciò che sapeva di costruzione dottrinale veniva fatto passare per ideologico. Negli anni ‘80 è cominciato a venire a galla il bisogno di un principio di azione immediata, un punto di riferimento chiaro, immediato su cui non si doveva nemmeno ragionare e che non poteva essere sottoposto a critica, perché se fosse stato sottoposto a critica sarebbe stato impossibile ricostruire una convivenza sociale, civile. C’era bisogno di immediatezza. Quale è, allora, il sapere che lavora con l’immediatezza? È il sapere scientifico. Perciò l’unica etica possibile è l’etica scientifica. Sullo scenario che oramai era stato svuotato di filosofia, di morale, della legge, di tutti i saperi (che erano tutti ideologici) il posto veniva conquistato dalla scienza, perché la scienza è l’unico sapere che lavora con l’immediatezza. La scienza è l’unico sapere universale o universalizzabile, perché la comunità non conosca confini.

Perciò l’etica doveva far proprio il carattere scientifico, puntando sulla immediatezza, sulla evidenza. Quali che fossero i fatti, si partiva dai fatti e non dai discorsi. I positivisti li chiamano “protocolli”, che sono i riscontri immediati che non possono essere messi in discussione.

La scienza parte con le evidenze immediate. Ecco come nasce il bisogno dell’etica. Quindi, l’unica etica possibile era quella scientifica.

Mentre l’etica, come principio di azione immediata, cerca un punto di riferimento immediato che solo la scienza può dare e che ha una valenza universale, la morale o cerca i sensi interiori oppure vuole capire, cogliere i significati. Questa è la grande differenza tra l’etica e la morale.

L’etica è imparentata con la scienza del comportamento animale, l’etologia.

L’Etos è la matrice prima, il principio primo che permette di spiegare il comportamento. L’etica avvicina, in certo senso, l’uomo al mondo animale.

Per quanto riguarda la sessualità, la sua etica, il suo protocollo è il “piacere” e la voglia di aumentare sempre il piacere a scapito del resto, cioè delle motivazioni, dei significati. È il piacere che può essere misurato, quantificato, ammontato di un minuto. Infatti, tutta la sessuologia gira intorno a questo problema: come si può fare ad aumentare il piacere sessuale. Questo piacere rappresenta l’etica della sessualità. Strettamente legata alla immediatezza nella ricerca del piacere a scapito di tutto il resto è la pornografia. La pornografia è il traffico del piacere. Il piacere può essere quindi commerciabile, scambiato ed entra, così, nel sistema sociale.

Quindi, mentre la morale cerca i sensi e i significati, l’etica si ferma all’immediatezza.

Vi lessi un brano della prima lettera di S. Paolo ai Corinzi (1 Cor 6,13), a proposito della pornografia. Il traduttore aveva scritto “impudicizia”, che significa non arrossire di vergogna, ma il termine “pornia” significa proprio “traffico”. S. Paolo scrive quella lettera ai Corinzi e Corinto, ai tempi di S. Paolo, era un porto famosissimo, dove si commerciava di tutto. Il piacere, quindi, è una quantità che può essere misurata e che entra nel mercato, nel commercio e nel sistema produttivo.

C’è un altro bel capitolo della prima lettera di S. Paolo ai Corinzi che dice: “Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!” (1 Cor 7,32-33-34).

All’inizio pensavo che quel “diviso” significasse “diviso da Dio”, invece, conoscendo meglio S. Paolo e la dinamica del piacere mi sono reso conto che quando S. Paolo dice “…e si trova diviso”, non si riferisce alla divisione da Dio, ma alla divisione dall’altro: il piacere come elemento che divide, non che unisce. Mentre l’etica della sessualità parla del piacere come un elemento universale, S. Paolo invece dice che il piacere divide. Ho trovato queste affermazioni non solo in S. Paolo ma in tutti quei filosofi che hanno trattato il tema del piacere. La conclusione cui arrivano questi filosofi è che il piacere non è mai un elemento unificante, ma un elemento dividente. Il piacere è un’esperienza molto propria, molto profonda non trasferibile da uno all’altro, non comunicabile.

Chi iniziò a trattare questo tema del piacere? Un filosofo alunno di Socrate, Aristippo, che fondò una scuola, la scuola Cirenaica. Questo filosofo diceva, in sintesi, che non si può esser sicuri di niente e di nessuno, che non c’è alcuna evidenza, che la mente mi può ingannare e che posso dubitare di tutto: se metto un bastone nell’acqua lo vedo spezzato, ma la sensazione è falsa. Qual è l’elemento primo che mi permette di dire che io esisto, che io vivo? Qual è l’evidenzia primaria? L’evidenzia primaria, diceva Aristippo, è che io sento il piacere e il dolore, come elementi primi che mi permettono di dire che vivo ed esisto. L’esperienza del dolore è del piacere è una esperienza fondamentalissima e importante dal punto di vista filosofico, perché mi permette di capire se esisto o no.

Ma chi è che me lo dà questo piacere? Il piacere è un sentirsi interiormente, è un tratto interno attraverso il quale avverto la mia esistenza. Che poi sia un uomo, una donna, un pensiero a provocarmi questo, il piacere è mio, soltanto mio. Il piacere è un’esperienza individualissima, interiorissima, non condivisibile con nessun altro. Il piacere più elevato, secondo Aristippo, è l’essere talmente pieno di sé stesso da non poter più essere stimolato. Il piacere chiude la persona in sé stessa, è un’esperienza molto profonda.

Il piacere sessuale non è un piacere, perché concentrandosi sull’altro, cercando di far provare piacere all’altro, di farsi desiderare dall’altro, il piacere che se ne potrebbe ricavare, se pur effimero, non esiste più. Questa fissazione di far godere l’altro è una fissazione e non porta a nulla. L’unico piacere proviene dal di dentro, da quell’intimo rapporto che si può creare con sé stessi e che porta ad un alto grado di conoscenza di sé e ad un grosso senso di appagamento profondo, ciò che la sessualità non può assolutamente raggiungere.

Un altro filosofo della scuola di Cirene diceva che il piacere più immenso è l’esser chiusi totalmente in sé stessi, così da non poter essere più stimolati da niente, così quando muori ti affidi al dolce processo di decomposizione, allora sai che sei tu solo, tu col tuo processo di decomposizione e fuori non c’è più niente. Lo chiamavano il “solipsismo egoistico”.

E il piacere sessuale? È a rischio, perché ti devi impegnare per l’altro, devi fare piacere all’altro. Staccate il piacere dalla sessualità. Questa fissazione di far godere l’altro è solo una fissazione, perché se l’altro non prova piacere tu non puoi fare proprio nulla. Il piacere è una esperienza interiore, non ha rapporti con le sensazioni che uno prova.

Questa corrente filosofica, ovviamente, poteva creare dei forti processi di isolamento nell’uomo, in cui ogni movimento di socializzazione veniva alimentato.

A tutto ciò corse ai ripari Platone, il quale cercò di trovare un modo per legare il piacere con un qualcosa derivante dalla società, da una vita esteriore oltre che interiore. Così disse Platone che il piacere è tutto ciò che può essere messo in relazione con il bello: tutto ciò che è bello provoca piacere. Il piacere, per essere vero, deve essere stabile e puro e deve dipendere dalla vista e dall’udito. I piaceri impuri portano ad uno stato di bisogno, di sofferenza che toglie piacere al piacere. Il piacere vero, per essere socializzabile, non deve dipendere né dall’odorato, né dal tatto, ma solo dalla vista e dall’udito, quindi il bello estetico è quello che si vede e che si sente. Per cui si fa una gerarchia dei sensi: i più importanti sono la vista e l’udito, gli altri sono più bassi, perché non permettono il vero piacere, perché il vero piacere è il rapporto con il bello, perché il bello permette di socializzare. Questo piacere poi deve essere stabile, non deve essere mischiato con la sofferenza e col dolore. I piaceri impuri portano ad uno stato di bisogno, di mancanza, che si cerca di risolvere con altro piacere, ma poi appaiono di nuovo la mancanza è il bisogno e si ricomincia daccapo. Il vero piacere è il piacere leggero, stabile che non dipende da un bisogno, da una mancanza.

Secondo Aristotele il piacere è legato all’attività ed il piacere più alto, l’attività più alta che un uomo può compiere è l’attività della mente, del pensiero; poi vengono i piaceri più bassi.

Anche nel piacere sessuale c’è un’attività, ma è l’attività che parte sempre da un bisogno, è impura. Il piacere vero, quindi, consiste nella passività. Ed ecco l’altra scuola di pensiero, quella di Epicuro, il quale affermava che il piacere vero consiste non nella attività, ma nella passività: starsene beatamente in compagnia; come gli dei nell’Olimpo, senza bisogni, se ne stanno lì, mangiano, bevono, parlano e scherzano.

L’errore dell’etica del piacere di oggi è quello di ignorare completamente tutto ciò che del piacere è stato detto e fare del piacere un qualcosa di immediato, che unisce le persone.

Se siamo attenti al pensiero di questi filosofi del passato ci rendiamo conto che il piacere non è per niente una realtà universalizzabile, ma è qualcosa che ha bisogno di riflessione, di morale. L’etica del piacere, della sessualità fallisce perché è un’etica scientifica e tutte le etiche scientifiche sono etiche che non vogliono portare addosso il peso della riflessione. La morale invece si chiede qual è il significato del vero piacere. La sessualità oggi ha bisogno di una riflessione morale.

La morale vuole suscitare il significato, la morale si chiede perché. L’etica, invece, afferma che il punto fondamentale della sessualità è il piacere e su questa storia del piacere sono enormi i danni che stanno combinando i sessuologi.

È necessario cominciare a staccare il piacere dalla sessualità. La sessualità è una cosa molto umana, molto vera per essere legata al piacere.

Perché due hanno rapporti sessuali? Alcuni abbozzano certe motivazioni tipo: lo facciamo per amore! Certo è un tentativo di risposta, almeno uno spazio c’è: non lo si fa per piacere, ma per amore. Ma dietro alla parola “amore” si possono celare tante cose che con l’Amore non hanno niente a che fare. Quindi ci vuole una riflessione seria sulle motivazioni della sessualità.

Intendiamoci, la morale può sbagliare, non esiste una morale sicura. Ma meglio correre il rischio dell’errore di significato che affidarsi a questa stupida e sciocca certezza che alla base della sessualità ci sia il piacere. È solo un atto di pigrizia.

Meglio sbagliare con la morale, perché è più umano e dignitoso, che regredire con l’etica.