Le relazioni

Lo spunto è tratto dal poema di Omero, l’Odissea. Le sirene che vede Ulisse sono come il canto del mondo. Noi sentiamo questo canto soprattutto quando ci prende un po’ di scoramento, quando le cose non vanno come avremmo voluto che andassero; spesso nel nostro silenzio queste voci le sentiamo. Sono le voci del mondo, voci incantate, voci incantevoli; le voci di dentro stanno sempre.

Dinanzi a questa isola delle voci di dentro, ci passiamo continuamente. Quello che dobbiamo imparare è come sciogliere i legami con queste voci. E avvertire che dietro queste voci incantevoli ci sta quel prato, col mucchio di ossa rinsecchite, di uomini che si sono fatti prendere da queste voci , sono andati lì sul prato dell’incanto, ma ci hanno trovato soltanto la morte.

L’incanto è la maschera, la morte è quello che sta dietro la maschera. Questo è il mondo! Per scoprire questa maschera bisogna essere legati a quella che viene chiamata “struttura originaria”, perché se non c’è una struttura originaria di pensiero a cui legarci, è chiaro che non riusciremo a capire veramente queste voci, non riusciremo a smascherarle, le prenderemo per voci buone, per voci amiche.
Le relazioni le scambieremo per tali e non capiremo invece il pericolo, il veleno che sta in queste voci. Con quella che è la struttura originaria di pensiero, capiremo invece cosa c’è dietro questo incanto del mondo. Quanto andremo ad imparare deriva da una scuola analitica; la parola analisi significa scioglimento, sciogliere dei legami. Cosa sono questi legami? Questi legami sono le relazioni. Le relazioni sono ciò che di più fallace vi è della nostra esistenza. La relazione è fallace sia da punto di vista ontologico, cioè dell’essere, sia dal punto di vista della conoscenza. Perché la relazione è fallace dal punto di vista ontologico, cioè dell’essere? La nostra è una scuola onto-analitica. Analitica perché vuole sciogliere le relazioni, onto, perché è proprio la struttura dell’essere che ci permette di capire come queste relazioni sono false sia dal punto di vista ontologico che della conoscenza.
Vediamo perché la relazione è fallace dal punto di vista dell’essere ontologico. Cos’è la relazione?

“Relazio est esse in alio”: la relazione è essere nell’altro. La relazione è una definizione mediante l’essere nell’altro. Perché è falsa dal punto di vista ontologico? Se io sono in “alio” cioè nell’altro, non sono più me stesso. Se l’altro sono io, l’altro non è più se stesso. C’è una contraddizione. Se io sono nell’altro, io non sono, perché l’altro è. Ed io sono soltanto una congiuntura, uno spezzato, un segmento dell’altro. Io non ho alcuna mia possibilità di essere identico a me e differente dall’altro, perché sono nell’altro. Quali sono invece i principi dell’essere? I principi dell’essere sono chiamati trascendentali, cioè delle qualità dell’essere che non derivano dall’esperienza ma soltanto dalla scomposizione, cioè dell’essere in se stesso. Sono giudizi analitici riguardo all’essere stesso. L’essere è così definito : “Esse est in sé, cum sé, per sé”.

L’essere è in sè. Se non fosse in sé ma fosse in altro, quale sarebbe l’altro dell’essere? Il non essere, cioè il nulla. L’essere non può stare in altro, altrimenti sarebbe il non essere e quindi deve stare in sé.

L’essere è cum sè. L’essere è coscienza di sé stesso, perciò sta con sé, cioè presso di sé perché se l’essere fosse soltanto in sé ma non avesse coscienza di sé, potrebbe benissimo essere trasportato altrove. Quando voi dormite non state con voi e quindi mentre dormite o siete in uno stato di narcosi, uno può farvi fare quello che vuole perché non state con voi; quindi l’essere deve stare con sé, deve essere trasparente a sè stesso.

Una continua immediata presenza dell’essere a se stesso. Questo è il cum se. Se l’essere è in sè deve essere necessariamente con sé perché se non fosse trasparente a se stesso, non sarebbe più in sé, sarebbe fuori di sé. Quando io sono in me veramente? Quando io rifletto su di me. Facciamo un esempio: questo libro siccome non è con sé, il suo in sè traballa un po’, in quanto io posso prenderlo, bruciarlo, buttarlo perché non è con sé. Quindi l’essere, proprio per essere in sé, deve essere con sé, cioè trasparente a sè stesso.
Ma per essere in sé e con sé deve essere per sé, cioè deve essere finalizzato a sé stesso perché se l’essere fosse solo un mezzo, uno strumento per l’altro, non sarebbe né in sé e nemmeno con sé. Questo è il concetto di persona che esprime Kant nelle sue opere. La persona è sempre un fine, non è mai un mezzo; non posso prendere una persona come un mezzo per arrivare ad altro, perché la persona è fine a se stessa.

Quindi l’essere è in sé, con sé e per sé. Solo se è trasparente a se stesso allora è per sé, cioè il fine è lui stesso, mai un altro.
Quindi bisognerebbe togliersi dalla testa alcune frasi sciocche che dicono: “io devo essere per gli altri”. Io non posso essere per gli altri; devo aiutare gli altri ad essere per sé stessi, a considerarsi fini e non strumenti. Questa è la grande carità che posso fare verso il mio prossimo; far capire al mio prossimo che tu non sei uno strumento né per me ne per gli altri, tu sei fine a te stesso. Riscoprire la dignità della persona.

Non è individualismo, non è egoismo; quando io dico sono fine a me stesso allo stesso tempo dico che tu sei fine a te stesso e quindi non posso usare te. Avrò il massimo rispetto per te. Quindi quelle stesse frasi stupide spesso dicono che Cristo è venuto per essere per noi. Niente di piu’ falso. Cristo è fine a sé stesso. Questo usare gli altri come strumento è un’attività molto diffusa, comune e redditizia. Questa è la relazione!

I movimenti dell’essere li chiamiamo trascendentali, perché non abbiamo bisogno dell’esperienza per capire queste cose, ma soltanto vedendo, capendo, enucleando tutta la ricchezza dell’essere. Perché l’essere sia così è necessario che sia in sé, con sé e per sé.

Abbiamo allora visto che le modalità sono tre. Se io al “in se” dò il nome di Padre, al “cum sé” dò il nome di Figlio, ed al “per sé” dò il nome di Spirito Santo, ci trovo il trascendentale. Quindi la Trinità racchiude i tre trascendentali dell’essere e si chiamano trascendentali perché non derivano dall’esperienza ma soltanto dalla enucleazione del concetto stesso. Se la relazione è essere in altro, essere in altro contraddice l’essere in sé.
Se tu sei nell’altro significa che tu non sei con te, non sei per tè e non sei neanche in te, cioè sei soltanto uno strumento dell’altro. Questo dal punto di vista ontologico. Dal punto di vista gnoseologico, cioè dal punto di vista della conoscenza, la relazione è fallace.

Vediamo perché. Che vuol dire conoscere l’altro? Io posso conoscere soltanto ciò che io stesso ho prodotto. Se io produco una cosa la posso conoscere perché conoscere vuol dire generare.

Io quando conosco, genero qualcosa; ecco perché conoscere e generare hanno lo stesso significato, la stessa radice. Io quando conosco genero. Cos’è la generazione? “Generatio est origo viventis a vivente in similitudinem nature”. La generazione è l’origine di un vivente da un vivente che ha come fine la somiglianza della natura.
Ma questo non significa soltanto il fine ma indica anche la modalità, il modo. Come avviene la generazione? Avviene secondo la somiglianza della natura, per cui il cavallo genererà il cavallo, l’uomo genererà l’uomo. L’uomo generato è non solo il fine ma è anche la modalità con cui viene generato. Se conoscere e generare sono la stessa cosa, che vuol dire conoscere l’altro? Che io genero l’altro.
Infatti voi dite : “io mi sono fatto un concetto dell’altro”; la parola italiana concetto vuol dire concepire, farsi un concetto dell’altro vuol dire concepire l’altro dentro di me. Il concepimento è il primo momento della generazione. Quando esprimo questo concetto mediante una parola, allora ho il completamento della generazione. Se io dico: “mi faccio un concetto di te”, mentre lo faccio, dentro di me io lo concepisco; quando lo dico, nasce ciò che io ho concepito. Quindi conoscere e generare sono la stessa cosa.

Lo dice proprio il termine concetto, concepito, concepimento. La generazione avviene avendo come fine la somiglianza della natura, perciò ciò che io ho concepito è simile alla mia natura, ma la modalità in cui io lo concepisco è la modalità propria della mia natura. Ora se io concepisco te nella mia mente, cioè ti conosco, che cosa io concepisco? Ti concepisco secondo la mia natura e a somiglianza della mia natura. A questo punto io dico: “che cosa ho conosciuto di tè”? Ho conosciuto te veramente? Oppure ho conosciuto me nel tentativo di generare te? Quindi come posso mai dire che io conosco l’altro? Conoscere l’altro vuol dire generare l’altro, ma se io lo genero perché ha la similitudine della mia natura, la modalità è quella della mia natura stessa, quindi io lo concepisco come un altro me stesso. Quindi quando io conosco un altro, in realtà sto generando me stesso come conoscitore.
Ma posso essere sicuro che l’altro corrisponde al concetto che io mi sono fatto di lui? Non posso essere sicuro, perché l’ho concepito secondo la mia natura.
Quindi se io conosco l’altro, io genero l’altro; ma generarlo vuol dire farlo, produrlo a somiglianza di me stesso; ecco perché si dice spesso: “ tu giudichi gli uomini secondo quello che tu sei” perché l’altro lo genero secondo la mia natura; e siccome la mia natura purtroppo è volubile, oggi ti genero in un modo perché corrisponde alla mia aspettativa, domani ti genero in un altro modo perché non devi più corrispondere alle mie aspettative. Ma in realtà, in tal modo, conosco l’altro o conosco me nella mia capacità di generare all’infinito?

Quindi la relazione, che significa conoscere l’altro, è fallace dal punto di vista dell’essere ontologico perché è contro i tre trascendentali dell’essere che sono in sé con sé e per sé. Relatio est esse in alio. Impossibile essere in alio; è come se dicessi che questo libro è il tavolo, cioè identificherei il libro col tavolo, comincerei a fare delle confusioni infinite. Quindi questo esse in alio è sbagliato dal punto di vista ontologico perché l’essere è in sé stesso. Se io dico libro intendo dire qualcosa che è identico a sé e differente dal tavolo per esempio. Per cui il libro è in sé stesso. Il tavolo é in sé stesso. Un filosofo, per difendere l’autonomia delle cose, degli oggetti, poneva la coscienza anche negli oggetti. Diceva : Il libro ha una sua coscienza, quindi ha anche un suo “con sé”. Per questo il libro è “per sé” e non per altro, perché ha i tre trascendentali dell’essere. I tre trascendentali dell’essere devono essere presenti in ogni ente (la parola ente è la forma breve, la forma in italiano di ens, entis, participio presente del verbo essere) o in filosofia definito anche essente. In filosofia si dice ente o essente. L’essere é infinito. Gli enti o essenti sono limitati. Mentre l’essere ha un solo contrario, cioè il non essere, gli enti hanno tanti contrari. Per esempio il libro è diverso dal tavolo, dalla lavagna, ecc. quindi un’infinità di opposizioni. L’essere invece si oppone al non essere. Ogni ente ha diverse opposizioni. Riepilogando, l’altro dell’ente può essere diverso, l’altro dell’essere é uno solo.
Per questo libro in quanto è, non in quanto è libro, qual è il suo opposto? L’unico é non essere.

Questo libro è un libro; in quanto libro ha tanti altri infiniti a cui si oppone: il tavolo, la luce etc. In quanto questo libro è, si oppone a una sola cosa, cioè al non essere del libro. Questo è un libro in quanto è un libro, l’altro dal libro che cos’è?: il tavolo la luce ecc. quindi è un altro infinito. In quanto questo libro è, qual è l’unico posto di questo libro? Certamente il non essere. La relazione, abbiamo visto, contraddice i trascendentale dell’essere che sono l’in sé, il con sé ed il per sé.

Tornando alla relazione si capisce come la stessa è contraddittoria perché dal punto di vista ontologico contraddice i tre trascendentale dell’essere, dal punto di vista della conoscenza la relazione che è conoscenza dell’altro non è mai conoscenza dell’altro ma é generazione di sé stesso, e dell’altro come qualcosa di interno a me. Ho a che fare sempre con me stesso, ho a che fare sempre con le cose come io le vedo; quindi non vi fidate mani di quello che pensate degli altri. Non dite che quello che pensate degli altri è vero. Se voi poteste mettere per iscritto o su una tela ciò che voi pensate degli altri, siete fantasiosi, siete creativi. Il saggio dice sò di non sapere, l’insipiente dice : sò come è quello, come è quell’altro ecc. Però è anche una questione pratica. Se io non mi convinco che l’altro lo conosco bene, non starò mai con l’altro. Quindi per motivi pratici dirò una bugia a me stesso, dirò che conosco bene l’altro perché dell’altro mi fido. A furia di dircelo questo fatto, alla fine scambiamo questo che è un atteggiamento pratico e lo facciamo passare per un atteggiamento teoretico, come cioè se conoscessi come stanno le cose. A furia di insistere sulla pratica facciamo passare la pratica per teoria, cioè per verità.
La relazione più feroce da cui dobbiamo prendere le distanze, dobbiamo cercare di sciogliere sempre più, è la relazione di riconoscimento, il bisogno di essere riconosciuto dagli altri. Questa è la cosa più importante. Questo bisogno é quello che vi farà più soffrirne nella vostra vita se non lo mettete a posto. L’altro capirà benissimo che questo è il vostro tallone d’Achille. L’altro capisce come voi ci tenete ad essere riconosciuto. Giocherà proprio su quello e vi farà soffrire. Voi imparerete ad odiare chi amate, perché lo amate perché vi riconosce ma lo odierete perché sapete di dipendere dal riconoscimento dell’altro. E’ una relazione ambigua. Genera odio e amore verso la stessa persona. Siccome è una relazione simmetrica, io riconosco tè e tu riconosci me, l’odio reciproco si incrocia con l’amore dell’altro ecc. alla fine non s’incontrano mai amore e amore con odio e odio. Immaginate quando la relazione é asimmetrica cioè quando uno viene riconosciuto da un altro che non ha bisogno di essere riconosciuto; E’ il caso dell’insegnante; perché in quanto insegnante deve riconoscere che i suoi allievi sono bravi, sono attenti etc, però del riconoscimento degli allievi non sa che farsene. Questo fatto di non aver bisogno di essere riconosciuti si trasforma in odio ferocissimo. Questo è il problema del “transfert e controtransfert” nella psicoanalisi.

La relazione simmetrica è quella piu’ comune da trovare tra le persone ed è quella che maggiormente rovina, distrugge. Chi mi permette di capire che la relazione è fallace dal punto di vista ontologico, che il conoscere non è altro che generare sé stesso, che l’altro viene generato secondo la mia natura? Come faccio ad accorgermi di queste cose? Quale è quella facoltà che mi permette di capire che sto errando?

Non è la conoscenza, perché se fosse la conoscenza sarebbe un generare secondo la mia natura. Ma io sto dicendo che genero secondo la mia natura e che quello che conosco non è vero. Qual è quella facoltà che mi permette di uscire da me per vedere me stesso come funziono? E’ il pensiero.

Il pensiero è diverso dall’intelligenza e dalla ragione. Il pensiero è quella facoltà che mi permette di cogliere me stesso. Il pensiero è quell’orrizonte ampio, largo, in cui appaio io stesso mentre mi conosco. Se io fossi soltanto nella mia conoscenza io non potrei mai sapere se questa mia conoscenza è vera oppure no. Il cervello può vedere se stesso? No, può vedere solo il cervello dell’altro. Quindi per vedere me stesso come funziono, come mi comporto, è necessario che io mi ponga fuori di me stesso. Questo essere fuori di me stesso si chiama pensiero o apparire trascendentale. E’ impossibile stare in me e parlare di me, perché posso vedere me solo stando fuori di me. Ma è un fuori che mi contiene, non è un fuori come “altro”; è un fuori mio proprio, ma non lo posso identificare solo con me stesso. La parola pensiero, e in latino esiste anche la parola penso, è una forma del verbo pendo, che non vuol dire pendere ma misurare, giudicare, pesare.

Quindi il pensiero è un’attività di peso, di giudizio. Qual è quella cosa che vi permette di valutare, di giudicare, di vedere? Quando no c’è luce, tutto è buio, ogni ente, ogni essente perde tutti i suoi confini, perde tutta la sua identità. Nella notte le identità delle cose scompaiono. Il buio annulla tutto. Quando torna la luce, ogni cosa rientra nei suoi limiti, nella sua struttura, nella sua forma. Quindi è la luce che permette di pesare, valutare, giudicare.
Il Vangelo di Giovanni è incentrato sulla lotta fra la luce e le tenebre. Mistero è mettere un velo di tenebre affinché le cose non vengano riconosciute per quelle che sono. La luce è quella che dà la forma alle cose. Io, per conoscere me non devo stare nel mio conoscere, perché il mio conoscere è una generazione da parte mia. Ma tanto io so che opero in questo modo, perché ciò appare nella luce, nel mio pensiero.

Il pensiero non appartiene a nessuno. Nel pensiero stiamo tutti. Questo pensiero noi lo chiamiamo Dio. Il pensiero non è un prodotto del nostro cervello, perché non si può produrre qualcosa che supera le stesse capacità del soggetto produttore. Se il pensiero fosse prodotto dal cervello, avremmo noi un pensiero capace di far apparire il cervello. Questo pensiero sarebbe molto piu’ grande del cervello. E’ impossibile che qualcosa produca cose piu’ grandi di sé. Il pensiero è molto piu’ grande del cervello, perché è il pensiero che mi permette di capire come funziona il cervello. Non può il cervello produrre qualcosa che poi mi permetta di capire come funziona il cervello. Secondo motivo. Il pensiero non è prodotto dal cervello perché se il pensiero è uguale al cervello non c’è nessun aumento di essere; se invece nel pensiero c’è qualcosa in piu’ del cervello vuol dire che nel pensiero appare qualcosa che nel cervello non c’era.

E se nel pensiero appare qualcosa che nel cervello non c’era, posso ridurre il pensiero al cervello? Se nel pensiero appare qualcosa in piu’ che nel cervello, vuol dire che il pensiero non deriva dal cervello. Il pensiero allora è proprio questa facoltà che mi permette di cogliere che cosa avviene, come vanno le cose e in questo grande orizzonte infinito, apparire o trascendentale, o pensiero, tutto appare; le cose si vedono così come avvengono.
La conoscenza invece, non è questo. Conoscere è un processo di adattamento che avviene mediante assimilazione di qualcosa dall’esterno, rigenerazione ed adattamento all’ambiente in cui mi trovo. La conoscenza fa un sacco di teorie perché queste teorie permettono all’essere umano di adattarsi sempre meglio all’ambiente, di farlo suo.

La conoscenza è un processo di adattamento tra la mente e l’ambiente esterno. Nell’adattamento non si tratta mai di sapere se è vero o non è vero. Nell’adattamento o funziona o non funziona. La conoscenza, quindi, nel suo processo non porta mai a conoscere la verità. Il processo conoscitivo è un processo di continuo adattamento tra me, soggetto, e l’ambiente in cui mi trovo. Io mi rigenero continuamente, mediante teorie che faccio, per adattarmi meglio all’ambiente. La verità non è questione della conoscenza. Il fine della conoscenza è l’adattamento. La conoscenza ha una funzione pratica.

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