Teologia 08 del 02.02.1998

La teoria è una favola che ci inventiamo per non guardare le cose così come sono. Oggi giorno la parola ha quella funzione fabulatrice che in passato spettava alle favole.

Chi parla esercita un tale potere su chi lo ascolta che alla fine, dopo una massiccia dose di parole, quest’ultimo viene acquietato, tranquillizzato. Quindi la parola non è ciò che incide, che zappa, che scava dentro di noi, bensì una parola che tranquillizza, che calma chi ascolta.

Le teorie esistono da sempre, e da sempre hanno avuto il compito di pacificare l’animo sperduto del povero essere umano che, ancora infantile, è messo al cospetto della realtà.

La filosofia eterna, nasce dal terrore. La filosofia moderna nasce dal dubbio. Il dubbio è già un primo tentativo di mettere su una teoria perché le cose non debbano stare così come stanno.

Le tre teorie che ci hanno permesso di sopravvivere alla quantità di schiaffi che la realtà provvede a darci non appena mettiamo il naso fuori di casa, o in casa stessa, sono – lo abbiamo detto – la “Teoria di Dio”, la “Teoria del Fare” e la “Teoria dell’Amore”.

È possibile dare un giudizio estetico sulle teorie intese come favole, e quindi convalidarle. Il giudizio morale sulle teorie, però, è un chiaro movimento di condanna. Sono, evidentemente, due cose completamente diverse. Il giudizio sulla teoria di Einstein può essere diverso dal giudizio che si può dare sulla scienza. La teoria di Einstein è una teoria estetica, molto apprezzata in campo scientifico, in quanto si è capito che proprio questa valenza estetica rende efficace una teoria. Lo scienziato si innamora delle sue teorie, proprio perché le considera belle, e si innamora di esse come una mamma delle figlie che ha generato: quanto più bella è la propria figlia tanto più la madre gode; quanto più brutta è la figlia tanto più la madre si racconta delle favole, delle chiacchiere per convincersi che la figlia è più bella delle altre. Le teorie ci servono perché siamo spaventati dinanzi alla realtà e vogliamo avere un dominio su di essa, affinché non ci spaventi più.

Anche se giudizio morale e giudizio estetico sono diversi fra loro, possiamo dire che in comune essi hanno la stessa finalità. Il neonato che piange per avere il cibo dalla madre ed il bambino, un po’ più grandicello, che per lo stesso motivo racconta una poesia sono diversi da un punto di vista estetico, ma il giudizio morale è lo stesso, la finalità è quella di ottenere cibo. Il cane che abbaia per ottenere cibo è un inizio di teoria, mentre il cane che scodinzola ci presenta un diverso aspetto estetico di teoria, ma entrambi vogliono la stessa cosa.

Quindi, da un punto di vista morale, esistenziale, tutte le teorie hanno la stessa validità; da un punto di vista estetico le teorie cambiano, perché ci sono quelle costruite meglio e quelle costruite peggio.

Il campo dell’estetica è il campo dell’arte. “Il giudizio universale” di Michelangelo e il peggior dipinto del peggior pittore hanno una valenza estetica differente, ma da un punto di vista morale sono sullo stesso piano, perché sono tutte teorie messe su per non guardare le cose così come sono.

Entriamo adesso in un campo più strettamente teologico, che riguarda Dio. Che cosa sono i miti? Anche il mito è una favola, una teoria. La differenza tra il mito e una favola scientifica consiste, per il mito, nella volontà di prendere le distanze da Dio, tenerlo a bada, mentre per la favola scientifica nel suo essere una metafora.

Lo scienziato costruisce le sue teorie per metafore, perché non ha una conoscenza reale delle cose. Egli usa un linguaggio detto “analogico”. In un primo momento lo scienziato compie un lavoro intuitivo, prendendo spunto dalle immagini e dalle consuetudini sociali per costruire tutto il suo apparato scientifico, mentre in un secondo momento comincia a sospettare ed a pensare che queste metafore, queste immagini, possano essere utilizzate per mettere ordine in questo grande bailamme che è l’universo. In un terzo momento, queste astrazioni prendono forma in equazioni matematiche, ma è questa l’ultima fase di un movimento. Ecco perché le teorie scientifiche prendono spunto dalla realtà di tutti i giorni. La teoria scientifica ha alla base la funzione di prendere le distanze dall’universo che ci soverchia, che non risponde alle nostre richieste di spiegazione, alle nostre preoccupazioni, e di ridurre questi spazi a teorie che ci fanno sentire padroni degli spazi stessi.

Il mito ha invece la funzione di mettere le mani su Dio, controllarLo, quasi dirGli ciò che deve fare e ciò che non deve fare, ciò che ci aspettiamo da Lui e ciò che non ci aspettiamo da Lui – in sintesi rendere Dio prevedibile -. In passato la Teodicea – branca della teologia – affermava che Dio è giusto ed in quanto tale deve fare questo e non deve fare quello.

Il mito è la teoria originaria. Tutte le teorie che abbiamo avuto in seguito sono teorie derivate.

I miti formano la struttura primaria dell’atteggiamento che noi abbiamo di fronte alla realtà, di fronte a Dio. Una teoria scientifica, per avere valore, deve presupporre un mondo ordinato, che non cambi mai, e queste affermazioni sono scritte nei miti religiosi. In essi sono scritte tutte quelle cose che ci rassicurano sul fatto che il mondo non cambierà mai, tranquillizzandoci, perché abbiamo a che fare con qualcosa di noto. Nel primo capitolo del “Genesi” è ben chiara la grande teoria del Dio ordinatore, che separa, divide, mette tutto in ordine. Solo su questi concetti è possibile mettere su le teorie dei miti, perché se il mondo fosse “pazzo”, imprevedibile, le teorie scientifiche non potrebbero esistere. Da quando è venuto meno il mito religioso – da quando cioè la religione è diventata un fatto privato – la rappresentazione della fase infantile di un individuo assume una valenza mitica.

Un primo grande positivista francese dell’800, August Compte, scrisse che in un individuo vi è , durante la sua crescita, una prima “fase mitica”, poi una seconda “fase metafisica” ed infine una terza ed ultima “fase scientifica”. La fase mitica, questa grande teoria religiosa che fa da supporto a tutto il modo di concepire il mondo in tutte le sue relazioni, cede il posto ad una fase metafisico-filosofica, alla cui fine Compte pone il suo stato – la terza fase, detta “fase scientifica”, cioè positiva, da cui la parola “Positivismo”.

Proprio da quando avviene questo passaggio alla fase scientifica, il Positivismo non da più alcuna certezza, in quanto esso è carente proprio del supporto mitico-religioso. Se con il filosofo Cartesio si è arrivati ad avere fortissimi dubbi sulla possibilità di riconoscere ciò che è vero, non solo, ma di avere fortissimi dubbi che vi sia qualcosa di vero da conoscere, come si può avere fiducia nell’efficacia della scienza?

La scienza, ora come ora, è capace di presentare delle probabilità, delle statistiche, e solo una persona stupida può credere che la scienza possa dare delle certezze. Tale evidenza è nota persino agli scienziati. È chiaro, venuto meno l’impianto mitico-religioso, venuto meno l’impianto filosofico-metafisico, persa la cognizione quindi della conoscenza della verità, su cosa può basarsi ora la scienza? Dove sono le leggi universali?

La scienza ha tagliato il tronco su cui il pensiero umano si fondava. Ecco perché è importante il mito religioso. Questo mito è la prima grande sistemazione che il pensiero umano ha voluto dare a tutto il cosmo, trovando un centro ordinatore che ha chiamato Dio, attorno al quale ruota tutto il cosmo che risulta sicuro. Anche Dio, quindi, è sicuro e siccome ciò che è sicuro è prevedibile noi possiamo sentirci tranquilli e contenti. Quindi la teoria come momento di rassicurazione, che toglie l’insicurezza che ci attraversa continuamente.

Leggere il primo capitolo del “Genesi” significa trovare questo mito magnifico. Nel catechismo insegnato nel modo solito che noi conosciamo, si racconta tutta la storia della creazione nel suo mito. Questo ordinare da parte di Dio tutte le cose, affinché non si confondano, è un concetto presente in tutte le religioni. L’autore sacro del “Genesi” ha preso questo mito in prestito dalle altre religioni e lo ha demitizzato, frantumato. La Bibbia, quindi, non è il libro dei miti, bensì il libro che ci insegna come si decostruisce un mito. In copertina si potrebbe scrivere: “La Bibbia, ovvero, il libro che proibisce il sognare”. La Bibbia è una destrutturazione di tutti i miti, di tutte le favole, di tutti i sogni. La Bibbia, una volta, era un libro che i cristiani non potevano leggere, ed era questa una proibizione che veniva proprio dalla Chiesa, ma non perché la Chiesa volesse detenere il monopolio sulla cultura; voleva invece far capire che se non si possedeva una solida cultura di base, si potevano trarre dai Testi Sacri dei concetti assolutamente falsi rispetto a ciò che veramente la Bibbia voleva dire. Questo è il guaio degli integralisti, i quali pensano di essere illuminati da Dio non appena aprono una pagina della Bibbia e leggono una frase. La Chiesa non ha mai proibito la lettura del libro se non nel luogo sacro.

È importante capire lo schema del primo capitolo del “Genesi”, in cui vi è una frase che ricorre spesso: “…e fu sera e fu mattina”. Solitamente siamo abituati a considerare un lavoro dal mattino alla sera, nel suo abituale svolgimento e ci risulta strano pensare che Dio abbia svolto il suo lavoro di creazione del mondo dalla sera alla mattina. La spiegazione è che il mito lavora dalle tenebre in direzione del chiarore.

Gli uomini hanno paura del buio, delle tenebre, che privano gli oggetti delle loro forme e contorni, e impediscono di distinguerli. Quando noi non vediamo più gli oggetti sprofondiamo nel nulla, in quanto sono proprio gli oggetti che ci circondano che ci danno la possibilità di orientarci.

Il filosofo Anassimandro diceva che tutte le forme, tutti gli enti derivano da un grande infinito che si chiama “apeiron”, che vuol dire “senza limite”, e proprio per questo non è definibile, quantificabile; non è, in sintesi, niente.

Noi veniamo fuori da questo niente, da questo indefinito, che non può essere descritto, perché non ha contorni. Come facciamo a vivere tenendo lo sguardo fisso davanti a questo sfondo scuro, indefinibile ed innominabile? Ecco la risposta – attenzione, però, che definendo cose che, appartenendo all’Apeiron, sono indefinibili, si compie una ingiustizia proprio verso l’Apeiron stesso, perché lo negano; dove c’è questa volontà di imporre cose che non sono vere, c’è ingiustizia -: la morte è il momento supremo della giustizia, in quanto toglie al nulla tutte le differenze.

Totò diceva che noi apparteniamo alla morte. Se abbiamo tentato nella nostra vita di emergere, di definirci, abbiamo commesso una grande ingiustizia di fronte a questo indefinito. Questo significa “…e fu sera e fu mattina ”.

Questo sguardo nell’assoluto, nell’indefinito che noi chiamiamo Dio, può farci impazzire, ma è anche vero che affacciarci sempre nel nostro mondo di sogni e di favole ci rende senz’altro nevrotici.

Nel secondo capitolo del “Genesi” si legge dell’invito che Dio fa all’uomo ed alla donna – fatti a sua immagine e somiglianza – di soggiogare la terra ed invaderla. In realtà il significato vero dell’invito di Dio è lo “stuprare” la terra, distruggerla, rovesciarla in tutti i suoi equilibri ecologici, riempire ogni possibile buco. L’autore sacro si rivolgeva a Dio invitandolo a guardare cosa Egli avesse prodotto dopo sei giorni di lavoro instancabile, quale era il prodotto del suo creato. Non sappiamo però quali immagini questo autore sacro avesse presente nel momento in cui, ispirato da Dio, scriveva queste pagine della Bibbia; forse immagini di morte e distruzione.

Noi consideriamo la natura bella, pura, e non pensiamo al fatto che nella natura esistono animali che si ammazzano tra loro, che si costruiscono le trappole, rendendo poco paradisiaca l’immagine della natura stessa: la natura non è solo il fiorellino ed il tramonto, è anche la catastrofe, il terremoto, la distruzione.