Psicoanalisi 07 del 16.02.1998

Il sincronico è colui il quale individua in un colpo d’occhio la struttura della Storia e si rende conto che l’analisi di una serie di eventi non presenta, per lui, alcuna novità. Egli conosce benissimo come le cose iniziano, si sviluppano e finiscono. Quindi uno studio sincronico permette, dall’analisi della struttura, di prevedere lo svolgersi degli eventi.

Lo studio diacronico è un studio che si sofferma su ogni singolo evento, seguendo ed approfondendo gli eventi man mano che si presentano. Solo alla fine di questo susseguirsi di eventi il diacronico può dare un giudizio, senza avere la capacità di prevedere gli eventi ancor prima che essi avvengano, capacità tipica del sincronico.

Il saggio è un sincronico; il pentito è un diacronico, il quale aspetta il completamento degli eventi per poi capire  che avrebbe potuto agire prima e si pente, appunto. È difficile, comunque, vedere un pentito che smette di raccontarsi delle favole.

Tutte le prime pagine del “Genesi” devono essere lette in chiave sincronica, in quanto, attraverso la loro lettura, ci si spiega perché la storia umana procede in un certo modo e non in un altro; non c’è bisogno di arrivare alla fine della sua lettura per capirlo.

La storia di Adamo ed Eva può essere ritrovata quotidianamente nella vita di tutti noi.

Ritorniamo al concetto di “intellettuale”.

È bene notare che esiste di fondo la solita convinzione che un dire intellettuale sia un dire freddo, asettico, distaccato, mentre un dire che proviene dal cuore sia più caldo, profondo, carico di partecipazione emotiva.

È bene chiarire questo concetto. Secondo il concetto biblico, la parola cuore non è ciò che noi intendiamo, ossia la culla dell’amore, posto dal quale scaturiscono sentimenti profondi, bensì proprio un qualcosa che con l’amore non ha nulla a che fare. La parola cuore, per la Sacra Scrittura, rappresenta quel luogo, centro della persona, da cui può venire fuori qualsiasi cosa. Diceva Gesù che ciò che contamina non è ciò che entra nell’uomo, bensì ciò che dall’uomo esce, perché nel cuore dell’uomo esistono maldicenze, cattiverie, fornicazioni, adulteri. Quindi il cuore è questo centro profondissimo da cui dipartono tutte le passioni dell’essere umano, e tali passioni, in fase potenziale, possono essere positive o negative. L’intelletto non è freddezza, ma passione travolgente, fortissima. La parola “intelletto” deriva dal latino “intus-legere”, ossia “leggere dentro”; l’intellettuale è uno che non rimane in superficie.

La parola “astratto” non riguarda proprio l’“intellettuale”, perché l’intellettuale è persino un tipo passionale, il quale patisce di questa sua capacità di leggere dentro.

L’intellettuale è un sincronico. Il diacronico è un superficiale. L’intelletto è una passione che viene dal cuore e non ha nulla a che fare con l’astrattezza. L’astratto è colui il quale da un contesto toglie un qualcosa, presente nel contesto stesso. Astrarre significa tirare fuori dal contesto. La pittura o l’arte astratta, per esempio, è il tentativo di ritrarre la realtà in forme che non hanno nulla a che fare con il contenuto, ma che presentano solo la forma. L’astrazione è separare ciò che da sempre è unito.

L’intellettuale è colui il quale vive con la passione di leggere le cose dentro. L’intellettuale ha la passione di mettersi di fronte al mondo e di spararlo, perché sa che il mondo lo vuole sopprimere. L’intellettuale è colui che dice: “io penso che sia così”, senza avere paura di trafficare con il suo intelletto. L’intellettuale identifica il suo essere con il suo essere intellettuale: è un uomo della resistenza. L’intellettuale è nel suo intelletto, esiste proprio attraverso il suo intelletto.

Oggi purtroppo le cose presentano aspetti preoccupanti, perché si evidenzia il fatto che l’essere non sta più nel proprio pensare.

Cartesio diceva: “Cogito, ergo sum”, ossia “penso, quindi sono”, e lo affermava con profondo orgoglio.

Oggi invece si dice: “esse est percipi”, ossia “l’essere sta nell’essere percepiti”.

“Esse est percipi” è la base della cultura in cui noi viviamo. Non venire percepiti dagli altri, secondo la cultura moderna, significa non esistere. “Esse est percipi” – era il motto di un vescovo filosofo anglicano, Berkeley, esponente dell’empirismo inglese, il quale pensava e diceva che non essere percepiti voleva dire non essere reali.

Carl Krauss, in un suo aforisma, diceva: “esiste una donna in una stanza prima che un uomo entri e la veda?”; ed anche: “Lo specchio serve all’uomo per accertarsi della sua esistenza”.

Questo è un problema di fondo della nostra struttura, infantile, che è necessario superare.

Il profeta Geremia diceva: “maledetto l’uomo che confida nell’uomo” (Ger 17,5).

Cosa vuol dire confidare nell’altro se non “essere percepiti dall’altro”?!! Significa dire che io esisto solo nella misura in cui l’altro mi percepisce.

Il concetto di mondo, in sintesi, è questo. Tutto il lavoro della psicoanalisi, a questo punto, consiste proprio nel distruggere, tagliare, interrompere questo concetto assolutamente distruttivo dell’“esse est percipi”, ed è un lavoro duro, profondamente diverso dal lavoro della psicoterapia che ha un’altra direzione.

Quello della psicoanalisi è un lavoro sull’esistenza e l’operazione dell’analisi termina quando l’individuo, non appena avverte questa tentazione di “essere” attraverso la percezione prodotta negli altri, si sottrae, rimanendo profondamente individuale.

Ricordiamo che la psicoanalisi scioglie il legame, il rapporto io-mondo, sino a pervenire alla totale mancanza di relazione con gli altri; il concetto di “altro” non esiste più e gli si sostituisce quello di “prossimo”, che, proprio perché prossimo, sta affianco, ma non si confonde con l’individuo.

Trasformare l’“altro” in “prossimo” è proprio il lavoro di Gesù nel Vangelo. Man mano che si procede con l’analisi e si libera l’essere dalle relazioni con gli altri, si inizia a capire che tutto ciò che rimane, perché è l’unica che esiste, è la sola relazione che individua l’essere, quella con l’Assoluto.

Solo in questo caso è possibile affermare che “esse est percipi”, perché io esisto solo se vengo percepito dall’Assoluto.

Questa relazione con l’Assoluto è l’unica che meriti di essere definita tale; solo con Dio ci si può definire, con nessun altro. L’altro mi sta solo di fronte.

Relazione significa riferimento. Il mondo, la modernità, fonda il suo concetto base sul fatto che tutto deve essere in relazione con tutto, per cui l’individuo viene triturato.

Individuo vuol dire “non divisibile”; stare nelle relazioni, invece, significa essere diviso in diecimila relazioni, ossia tante quante sono le relazioni che si mantengono.

Il mondo ci tiene affinché la persona mantenga tante relazioni, perché così è possibile, abbastanza facilmente, il controllo su quest’ultima.

La modernità è caratterizzata da una consapevolezza di “perdita di fini” – non esistono più fini da raggiungere, ma a tutto si sostituisce; un caos in cui tutti entrano in relazione con tutto.

Ecco perché il lavoro della psicoanalisi è molto, molto complicato. Nell’analisi, la relazione con l’Assoluto viene proprio vissuta tra l’analista ed il paziente, ossia quest’ultimo vede nell’analista proprio l’Assoluto ed è questa una situazione molto pericolosa; la buona riuscita di un’analisi sta proprio nella bravura dell’analista.

Il “transfert” è proprio il vedere nell’analista l’Assoluto e trasferirsi completamente in questa relazione che si realizza. Attraverso questa esperienza il paziente fa l’esperienza dell’Assoluto.

È necessaria l’assoluta serietà e professionalità dell’analista. L’analisi dei sogni, per esempio, è una cosa assolutamente inutile. Ormai, secondo le ultime scoperte, sembra che i sogni siano una riprogrammazione genetica che viene messa in atto quando necessaria. Il sogno è una retrospettiva di ciò che è avvenuto ed una prospettiva di ciò che si vuol fare.

Qualcuno mi chiede se sia possibile l’autoanalisi. L’autoanalisi non può esistere, perché ci si mette in relazione con sé stessi (auto-analisi, appunto)

L’Assoluto dov’è? Nella relazione analitica ci si mette di fronte ad una persona che non ha bisogno del paziente. Tutte le relazioni, tranne quella con l’Assoluto, presuppongono un bisogno reciproco.

Riportiamo adesso un breve articolo del filosofo Hilmann: “Penso ad una nuova figura di psicoanalista. Io dico che lo studio – il luogo dove si fa l’analisi – dello psicoanalista sia il covo delle rivoluzioni, un luogo di resistenza contro il consumismo e contro l’accumulo dissennato. È l’invisibile – l’Assoluto – che bisogna tenere vivo, non il consumismo. È necessario resistere; questo è un grosso impegno. Preservare, proteggere – non fare, ma operare – tornare, insomma, all’antico compito del rivoluzionario: essere sovversivi”. Questo è il compito della psicoanalisi. Maledetto l’uomo che confida nell’uomo.

L’intellettuale, il cristiano, lo psicoanalista, pur non sapendolo, stanno tutti sulla stessa lunghezza d’onda. L’intellettuale conduce uno stile di vita che purtroppo, porta ad avere molti problemi e molti nemici. Allora, viva il detto: “molti nemici, molto onore”.