Critica psicoanalitica 06 del 24.01.2000

Non esiste una sola psicoanalisi; è vero che il fondatore della psicoanalisi è uno, Freud, ma da quella prima psicoanalisi se ne sono poi formate tante altre ed è quasi impossibile rintracciarle tutte, anche perché una cosa è la teoria psicoanalitica, un’altra cosa è ciò che avviene durante il “setting”, cioè la parte pratica della psicoanalisi. Tante volte le teorie sono messe da parte e il “setting”, cioè l’incontro psicoanalitico, prende tutta un’altra strada, all’opposto della teoria; anzi, spesso entra in contraddizione con le stesse teorie psicoanalitiche.

Ecco perché, per me, il modo migliore di spiegare la psicoanalisi è quello di partire dall’etimo della parola: solo così posso attenermi, posso tenermi stretto al significato della parola e ci posso lavorare attorno. Solo attenendosi al significato della parola è impossibile fare dei voli pindarici, parlare di psicoanalisi in tanti altri modi.

Come dicemmo la volta scorsa, molte psicoanalisi sono anche dei racconti. Esiste il racconto psicoanalitico freudiano, nel senso che tutto il nocciolo della psicoanalisi freudiana è quello in cui l’essere umano è il campo in cui si disputa una grande lotta tra due principi: il principio di piacere e il principio di realtà. Ogni essere umano è abitato da questi due principi, i quali sono inversamente proporzionali: quanto più domina il principio di piacere tanto più deve retrocedere il principio di realtà, quanto più avanza il principio di realtà tanto più deve retrocedere il principio di piacere. Questo è il fulcro della psicoanalisi freudiana e tutta la psicoanalisi freudiana è il racconto di questa lotta continua che coinvolge non soltanto una persona, ma tutte le persone, tutta la storia del genere umano, tutte le culture, le civiltà, tutta l’opera di civilizzazione che – secondo Freud – è fondata proprio sulla lotta, sulla dialettica (si dice “dialettica” per nobilitare la cosa, si dice “lotta” per usare un linguaggio più comune) tra il principio di piacere e il principio di realtà.

Il principio di piacere tende al soddisfacimento: è una scarica immediata, anzi, secondo Freud, il principio di piacere consiste in una scarica immediata di una tensione (parla proprio in termini di meccanica); l’essere umano è una macchina in cui si produce una tensione fortissima, per cui il piacere immenso è quello della scarica di questa tensione fortissima. Tanto più alta è la tensione che si crea, tanto più forte sarà il piacere che consisterà nella scarica completa di questa tensione. L’energia che si accumula, che crea tensione viene scaricata; questo è, quindi, il piacere.

Per questo il piacere di cui parla Freud rassomiglia un po’, stranamente, alla morte, perché è una scarica completa, per quanto è possibile più completa di una tensione accumulata. Per questo, tutta la psicoanalisi freudiana, dal punto di vista teorico, la possiamo leggere alla luce del 2° principio della termodinamica (principio dell’“entropia”): ogni sistema tende a raggiungere uno stadio sempre più probabile, cioè ad energia sempre più bassa. Così – secondo Freud – l’essere umano (il sistema “essere umano”), tende a raggiungere uno stadio energetico sempre più basso, sempre più probabile.

Chi ha studiato la chimica ricorderà la famosa “regola dell’ottetto”, cioè gli elementi sono instabili e tendono di per sé a raggiungere la forma più stabile, o cedendo elettroni o acquistando elettroni; raggiunta la forma stabile si rasserenano, si tranquillizzano, non hanno più da scaricare energia. Questa scarica di energia, con il piacere che comporta, rassomiglia stranamente alla quiete, quindi alla morte.

Quindi, tutta la legge, tutta la cultura, tutta la storia, tutti i movimenti umani rispondono, secondo Freud, a questa dialettica, a questa lotta tra il principio di piacere, che vuole scaricare totalmente e immediatamente le tensioni e in questa scarica della tensione avviene la soddisfazione dei bisogni, e il principio di realtà, se non puoi scaricare tutta questa tensione immediatamente, ma lentamente. In questa scarica lenta, in questa scarica programmatica, cadenzata, a tappe, della tensione s’inscrive tutto il processo della civilizzazione. Guai se l’essere umano scaricasse tutto immediatamente: non ci sarebbe né cultura e né civiltà. Da qui il detto di Freud: “non c’è civiltà senza repressione”; se non c’è repressione, se si permette a tutti una scarica immediata della tensione, il soddisfacimento immediato che consiste nella scarica delle tensioni, non avremmo più cultura, non avremmo più civiltà.

Se, per esempio, uno mangiasse continuamente e andasse sempre alla ricerca del cibo, è chiaro che, a parte lo stato di prostrazione che raggiungerebbe, non lavorerebbe più, e quindi non si avrebbe né il lavoro, né la cultura; se un uomo e una donna scaricassero le energie e le tensioni sessuali con tutti gli uomini e le donne che incontrano, non avremmo più la famiglia e quindi non avremmo più il processo di civilizzazione e di cultura.

Ora, scaricando lentamente, cadenzando, riservando tempi e luoghi per questa scarica, è possibile il processo di civilizzazione e di cultura. Se invece l’essere umano scarica tutte le sue tensioni in maniera immediata – secondo Freud – va incontro a un disturbo psichico che si chiama “psicosi”; se invece non scarica o scarica male le sue tensioni va incontro a un altro disturbo psichico che si chiama “nevrosi”. La nevrosi è proprio di quelli che non possono scaricare tutto immediatamente, ma devono cadenzare questa scarica e questo fatto di dover cadenzare la scarica, di dover ritardare la scarica crea un certo nervosismo nell’essere umano, che chiama “nevrosi”. Ma non c’è civiltà, non c’è cultura senza nevrosi: per cui o “nevrosi” o cultura, siamo là.

Diceva Freud: “Tutto il processo di civilizzazione è una nevrosi generalizzata”, senza questa nevrosi generalizzata non avremmo cultura, non avremmo storia, avremmo solo una scarica immediata di tutte le tensioni di qualsiasi specie.

Anche questo è un bel racconto. Non accetto questa dialettica tra principio di piacere e principio di realtà, perché dal mio punto di vista l’unico piacere è proprio quello della realtà. Per Freud l’unico piacere è quello del desiderio, a cui si oppone la realtà; a mio parere, invece, c’è proprio una coniugazione tra principio di piacere e principio di realtà, perché l’unica cosa che può dare piacere, o godimento, è semplicemente la realtà, ciò che è, ciò che è vero.

Viste le cose così, è chiaro che l’assunto di Freud per il quale “non c’è civiltà senza repressione”, secondo me cade.

È ovvio: se noi riempiamo la testa alla gente con il fatto che tutta la grandezza dell’essere umano sta nel desiderio, quando ci si scontra con la realtà, si cadrà in uno stato di nevrosi, oppure, per sfuggire alla nevrosi, si scaricherà tutto subito e si diventerà psicotici.

È vero, invece, che, essendo la realtà l’unica cosa che c’è – il resto è fantasia, è desiderio, è telenovela, è sogno -, l’unico piacere che si può ricavare è proprio dalla realtà.

Il principio cardine di una dottrina morale come il buddismo ritiene che il dolore umano non è altro che la conseguenza dello scarto tra il desiderio e la realtà. Quindi, se aboliamo il desiderio, aboliamo il dolore. Però questo non bastava al buddismo, perché accettare e trovare piacere e godimento nella realtà è difficile. Allora il buddismo in che cosa si risolve? In una negazione anche della realtà, in una specie di “acosmismo”, cioè il cosmo, la realtà si dilegua tutta in un’apparenza, in un’illusione. In questo modo prima togliamo il desiderio, ma per evitare che il desiderio risorga dobbiamo abolire la controparte del desiderio, che è la realtà; abolendo il desiderio e la realtà, togliamo tutto, togliamo tutto di mezzo, togliamo il dolore e togliamo il piacere. Questo è un altro tipo di soluzione.

La soluzione che io propongo è questa: l’unico godimento, l’unica gioia che si può provare è proprio quella dell’incontro con la realtà, facendo fuori qualsiasi sogno, qualsiasi desiderio. Per questo dico spesso che chi viene qui, impara a non sognare più, impara a guardare le cose così come sono, perché l’unica gioia che possiamo ricavare è quella di vedere le cose così come stanno. Mi ricordo sempre la frase di Gesù: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,31-32).

Volendo cercare di chiarire meglio cosa intendo io per “psicoanalisi”, sempre rifacendosi all’etimo della parola, mi sono imbattuto in una parabola del Vangelo: la parabola del fariseo e del pubblicano. È una parabola che qualche volta ho avuto modo di esporre e di commentare. È molto utile – secondo me – per capire la differenza che c’è, per esempio, tra psicologia e psicoanalisi (così come la intendo io). La parabola è questa: “Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato»” (Lc 18,9-14).

Come vedete, si tratta di una parabola breve, ma molto densa di significato e che – ripeto – può aiutarci a capire meglio la distinzione tra psicologia e psicoanalisi.

Vi dicevo che non esiste un solo tipo di psicoanalisi, ma tanti tipi, tante scuole diverse, tante sotto-scuole. La pratica psicoanalitica, poi, è un’altra cosa, perché, come dicono Ferman e parecchi altri psicoanalisti, in realtà non si deve tener conto di alcuna teoria: la psicoanalisi si realizza nello stesso momento in cui si fa il “setting” psicoanalitico, lì avviene la psicoanalisi, non ci devono essere delle teorie previe o tecniche o altro che mi diano il quadro e il percorso da fare.

Tant’è vero che molto spesso, quando fanno con me psicoanalisi, mi chiedono: “che cosa devo fare?”, “qual è il percorso, qual è il processo”. Io rispondo che non lo so, ma che strada facendo vedremo come andare avanti. Non si può dire mai prima.

Questo è stato chiamato il secolo della psicoanalisi, ma ormai la psicoanalisi è un po’ in crisi. In crisi perché? Perché la psicoanalisi ha dato dei notevoli apporti dal punto di vista filosofico, dal punto di vista letterario, dal punto di vista umanistico, ma non ha mai voluto confrontarsi con lo statuto scientifico. La psicoanalisi ha sempre ritenuto di essere un qualcosa di extra-scientifico, non ha mai voluto sottoporre a verifica le sue basi empiriche, cioè l’esperienza. Ogni processo scientifico – voi sapete – ha bisogno di verifica, di falsificazione; la psicoanalisi, invece, non accetta questo statuto scientifico della verifica delle sue basi empiriche.

Grandi apporti, per esempio, la psicoanalisi li ha dati in campo psichiatrico, perché ha fatto capire agli psichiatri che non devono essere molto sbrigativi nel fare diagnosi e nell’etichettare le persone. Ma dal punto di vista della terapia psicoanalitica, non abbiamo avuto nessun grande apporto. Nessuno è stato mai guarito da una “psicosi” con la psicoanalisi, nessuno è stato mai guarito da una “nevrosi” con la psicoanalisi.

Dal punto di vista della mia psicoanalisi mi spiego perché non può essere guarito.

La psicoanalisi, oggi, è entrata in uno stato quasi di senso d’inferiorità. Qual è la decisione ultima della psicoanalisi per superare questo senso di inferiorità nei confronti delle scienze? Quello di accettare lo statuto scientifico. Infatti, ha cominciato ad allearsi con le neuroscienze, con la biologia evoluzionistica darwiniana, ecc. Insomma, sente proprio il bisogno di diventare scientifica accettando i modelli della scienza: sia quello biologico-darwiniano, sia quello delle neuroscienze; cioè la psicoanalisi si sta contaminando, si sta ibridando, perché ormai non può, oggi, la psicoanalisi (è qui l’altro errore) sfuggire al richiamo della sirena scientifica.

Tutto ciò che non è scientifico, oggi, non vale niente. Come la psicologia, così anche la psicoanalisi soffre di questo senso di inferiorità, per cui ha deciso di ibridarsi, di contaminarsi con la scienza biologica e con le neuroscienze. Questa è l’ultima articolazione, l’ultimo incanalamento che la psicoanalisi ha preso.

Dal mio punto di vista, invece, ritengo molto valida, molto importante la parabola del fariseo e del pubblicano: valida per capire la differenza tra psicologia e psicoanalisi, per capire meglio il concetto di psicoanalisi così come la intendo io.

Il fariseo era un uomo timorato di Dio, onesto, convinto che l’abbondanza dei beni fosse un fatto importante, ma era disposto anche al sacrificio, infatti dice: “digiuno due volte a settimana e pago le decime…”. Che cosa mette sempre davanti questo fariseo? Mette davanti il suo “io” ([io] non sono come tutti gli altri, [io] digiuno due volte alla settimana, [io] pago le decime). La psicologia è proprio la costruzione di questo “io”, l’“io” che viene costruito. Per questo vi dicevo che la psiche è la relazione io-mondo. L’“io” si costruisce dinanzi a chi? Dinanzi agli altri.

 Il fariseo è proprio l’espressione tipica di questa psiche. Ha bisogno, per affermare il suo “io”, di prendere le distanze dagli altri. Non prende, però, le distanze infischiandosene degli altri: mentre prende le distanze dagli altri, cioè dal mondo, ha bisogno che il mondo lo guardi nella sua differenza, perché se non c’è nessuno a guardarlo, ad osservarlo, a valutarlo nella sua differenza, il fariseo non ha più senso di esistere. Quindi, rimane sempre fondamentale questa relazione io-mondo.

Il fariseo vive quella che è la grande sceneggiata dell’anoressia e della bulimia. Il fariseo è pieno, è gonfio di relazioni. Gesù dice: “Guardatevi dagli scribi che amano passeggiare in lunghe vesti e hanno piacere di esser salutati nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei conviti” (Lc 20,46). Gli scribi e i farisei avevano proprio il vizio, il bisogno di riempirsi di mondo, un bisogno eccessivo di mondo, di relazione con gli altri. La relazione col mondo è per loro fondamentale, perché se non c’è il mondo che li applaude, se non c’è un mondo che li valuta, se non c’è un mondo che li ritiene i migliori e i riusciti, i farisei non riescono ad esistere: il senso della loro esistenza sta semplicemente negli altri, nel mondo, sono gli altri che li fanno esistere. Sono bulimici. Ecco che cos’è la bulimia: il bisogno di essere riempiti di mondo, il bisogno di essere riempiti di sguardi, il bisogno di essere riempiti di giudizi positivi.

Pensate un po’ dove arrivavano: siccome un salmo recita “la legge di Dio è sempre dinanzi ai miei occhi”, interpretando alla lettera quest’affermazione, prendevano i Dieci Comandamenti, li iscrivevano su delle cartuccelle, le legavano, facevano dei rotolini e se le appendevano sulla testa facendole calare dinanzi agli occhi, per rispettare il dettato del salmo. Arrivavano dunque a questo punto!

Il bisogno di essere riempiti, questa è la bulimia. Io non sapevo il significato etimologico della parola bulimia; me l’ha chiarito stasera l’amico Luigi: bulimia deriva da “bous”, che significa “bue”, “limos”, che vuol dire “fame”. Dunque, “fame da bue”: il bulimico è colui che ha la fame di un bue, la voracità di un bue, deve ingozzarsi di tutto, riempirsi, ha un vuoto da riempire continuamente e soltanto il mondo, quelli che gli stanno di fronte, possono riempire questo vuoto esistenziale.

Il fariseo bulimico ha bisogno continuamente della relazione con il mondo, che il mondo lo guardi, che il mondo l’osservi, perché il mondo è la proiezione dell’“io”. L’“io” ha bisogno di proiettare fuori di sé la pienezza che non ha, per poi appropriarsene. Questo è il lavoro del bulimico.

Secondo me non si parte dall’anoressia, si parte dalla bulimia, cioè si parte dalla constatazione di un vuoto profondo. È come quando una persona sta nel deserto, non ha di che mangiare e bere e gli vengono le allucinazioni. Le allucinazioni non sono altro che una proiezione fuori di sé di ciò di cui si ha bisogno. Ma è sempre e soltanto una proiezione. Il mondo è una proiezione dell’“io”: è l’“io” che proietta il mondo. Come d’altra parte è anche vero che l’“io” è una proiezione del mondo, perché il mondo, una volta proiettato fuori di sé, diventa tiranno. È il mondo, a questo punto, che ti dice come devi essere, cosa devi fare, di che cosa devi aver bisogno, che cosa puoi soddisfare, che cosa non puoi soddisfare. Quindi, la tua stessa proiezione, la tua stessa allucinazione, ciò che tu stesso hai costruito, si ritorce contro di te, perché – ripeto – se è vero che il mondo è la proiezione dell’“io”, è vero anche che l’“io” è la proiezione del mondo e così non si finisce mai.

Quando mi accorgo che il mondo mi perseguita, mi pone dei limiti, mi dice cosa devo e cosa non devo fare, cosa posso prendere e cosa non posso prendere, allora comincio a diventare anoressico, comincio a perdere appetito, non voglio più nutrirmi e cibarmi del mondo. Così, il fariseo, prima si ciba, si nutre di immagine e poi comincia a fare l’anoressico, dice: “digiuno due volte alla settimana e pago le mie decime…”, cioè allontana da sé tutto quello che si è preso, proprio per sfuggire a questo mondo che poi lo costringe a fare e ad essere ciò che dice lui.

Attenzione: la storia dell’anoressia e della bulimia continua sempre, non è che poi l’anoressico non mangia più! L’anoressico, poi, avverte di nuovo il senso di vuoto e ritorna a nutrirsi di mondo, per poi vomitare tutto e ricominciare daccapo. L’anoressico, molto spesso, mangia di nascosto, perché ha fame, si riempie proprio per il gusto di vomitare, proprio per il gusto di togliere da sé questo mondo che gli è entrato dentro (il cibo rappresenta il mondo). Questa è l’anoressia attiva.

L’anoressia passiva, invece, è quella di chi non si nutre più, non mangia più, non fa più niente.

Guardate che gli anoressici attivi sono persone di una intelligenza elevata, hanno capito bene che cosa sia il mondo e come il mondo li condiziona, lo sanno bene. Per questo avvertono proprio il gusto di prendere e vomitare tutto questo mondo, e così vanno avanti.

È diverso il caso, per esempio, delle Sante anoressiche: quelle erano anoressiche – ho letto delle opere – non perché avessero questo rapporto con il mondo: non mangiavano, non avevano appetito, perché si sentivano talmente piene, complete da questo rapporto con la divinità che per loro il mangiare era un fatto superfluo, non ci pensavano. È come quando uno si fa prendere così tanto da un’attività che sta facendo, che non ha più la sensazione della fame. Le Sante anoressiche sono proprio un caso di anoressia passiva. Pensate che alcune di queste Sante, di cui non ricordo bene il nome, sono riuscite a vivere per tutta la vita – 30-40 anni – senza mangiare, cibandosi soltanto una volta al giorno di un’ostia consacrata; solo questo è basta. Per 30 o 40 anni un’ostia consacrata al giorno era sufficiente per stare bene. Qualcuno potrebbe dire che mangiavano di nascosto. Erano tenute sott’osservazione per tutto il giorno, stando ai documenti. Il fatto è che erano talmente piene di questo contatto con la divinità, che anche il corpo godeva, anche il corpo si nutriva in una maniera strana, si riempiva di questo godimento e stavano bene anche fisiologicamente, cioè il corpo non dimagriva, erano normali. Sono cose documentate.

Il pubblicano, invece, sta lì. Chi erano i pubblicani? I pubblicani erano degli ebrei, cioè appartenevano al popolo ebraico, i quali facevano un lavoro odiato un po’ da tutti: erano addetti a riscuotere le tasse. L’aggravante era che la riscossione delle tasse avveniva per conto dell’Impero romano. Quindi erano esattori al soldo, al servizio dell’Impero romano, che in quel momento aveva esteso il suo dominio sulla Palestina. Questi pubblicani, quindi, venivano considerati non solo dei mascalzoni, perché stavano sempre a trafficare, a spremere soldi, ma anche dei traditori, perché facevano gli esattori a vantaggio di un popolo nemico, che aveva oppresso, che teneva sotto pressione il popolo d’Israele.

Due erano i termini usati in Israele per offendere una persona: o la chiamavano “samaritano” o lo chiamavano “pubblicano”. Dire “pubblicano” era come dire “traditore del popolo”.

In fondo al tempio stava, dunque, il pubblicano, il quale non si fa avanti, non ha bisogno di essere visto, non si mette in mostra, non occupa mai i primi posti, ma sta sempre in fondo e sta in fondo perché lo sguardo che viene dal fondo, da lontano, è uno sguardo che vede meglio; lo sguardo, invece, che sta davanti, lo sguardo che non viene da lontano, lo sguardo che sta vicinissimo, è proprio lo sguardo del fariseo, che non vede niente, non riesce a capire niente.

Il pubblicano, che sta in fondo, vede le cose come stanno, capisce come vanno le cose, capisce la verità delle cose. Il pubblicano non osa neanche alzare gli occhi al cielo e prega dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

Il fariseo è l’“io” intrappolato nella dialettica con il mondo; il pubblicano è la coscienza.

La coscienza è diversa dall’“io”. L’“io” è una costruzione, è una volontà di potenza, di potere, una volontà di affermazione, l’“io” è qualcosa che si fa giorno per giorno a danno del mondo e di cui il mondo, poi, si vendica.

La coscienza, invece, è un’attività destrutturante, perché non costruisce, ma demolisce. La coscienza demolisce tutte le stratificazioni, è un lavoro di archeologia, la coscienza sta nel gradino più basso perché dal basso tu puoi vedere come stanno veramente le cose.

Per questo dico che la ricerca della verità non è un andare avanti, ma un togliere gli strati con cui l’abbiamo coperta. Solo così può emergere la coscienza, che è coscienza di verità.

Ora, mentre la psicologia lavora sull’“io” e sulla relazione io-mondo, la psicoanalisi lavora sulla coscienza.

La psicologia sta attenta al rapporto anoressico-bulimico tra io e mondo, volendo regolare perbene le cose, ma questo non è possibile, perché l’“io” e il mondo sono due proiezioni: ognuno si vuole impossessare dell’altro e nessuno dei due, né l’“io”, né il mondo, hanno la formula magica per far sparire l’altro. Si sono prodotti reciprocamente e non riescono più a farsi sparire, perseguitandosi reciprocamente. Ecco perché la psicologia della relazione fallisce sempre.

La psicoanalisi, invece, punta – attenendosi all’etimo della parola – allo scioglimento della psiche, allo scioglimento della relazione io-mondo, perché al suo posto venga alla luce la coscienza, il pubblicano, che è lo sguardo che sta in fondo, perché solo dal fondo le cose si possono vedere bene.

Negli anoressici e nei bulimici – esempi tipici dei manuali di psichiatria – il conflitto io-mondo trova come mezzo per la sceneggiata il proprio corpo. In realtà l’anoressia e la bulimia sono tratti caratteristici di ogni psiche, ad ogni livello, mentale, relazionale ecc. Esempio tipico sono quelle persone che desiderano fortemente fuggire in un luogo solitario, ma non appena vi giungono, muoiono dalla voglia di ritornare fra la gente. Il fenomeno dell’anoressia e bulimia è un problema della cultura umana. Ogni cultura è bulimica e anoressica a fasi alterne.

La psicologia ha capito di non aver risolto niente. Esiste un bellissimo libro di uno psicoanalista di scuola junghiana, tale Illmann, il quale diceva che dopo cent’anni di psicoterapia il mondo non è cambiato. Questo perché la psicologia ha sempre tentato, e tenta ancora, di aggiustare la relazione io-mondo, mentre bisogna effettuare il lavoro contrario, ossia distruggere, annullare questo rapporto.