Processo a Dio 02 del 24.11.1994

Nel 150 d.C. il popolo ebraico definitivamente poté andare da una parte all’altra, allora il compito dei rabbini, maestri (rabbino non vuol dire usuraio ma maestro) era quello di conservare puro ed intatto l’insegnamento della sacra scrittura. Quindi nei racconti classici si raccolgono 10 gesta, i fatti salienti della vita di questi rabbini, soprattutto i rabbini dell’Europa, cecoslovacchi, polacchi, tedeschi. C’era tra questi racconti classici il racconto di un ebreo chiamato Mosè Wolf (nome ebraico e cognome tedesco) che si rivolge al rabbino Rebmelech come giudice, poiché i rabbini erano giudici, per esporre il suo caso che si sostanziava nel citare Dio in giudizio.

Questo Mose’ Wolf dice di accusare Dio e di citarlo in giudizio perché non ha mantenuto le sue promesse.

Dio aveva promesso al popolo dei suoi eletti un’assistenza continua, che veniva a mancare perché avendo l’imperatore messo una tassa elevatissima sui matrimoni, e non avendo Mosè denaro per pagarla sua figlia non si sarebbe potuta sposare.

Perché Dio permette all’imperatore di mettere delle tasse così alte, ed impedisce a sua figlia di sposarsi?

Dov’è il suo aiuto e dov’è la sua assistenza?

Quindi lo cita in giudizio, lo vuole processare perché non ha mantenuto le sue promesse.

Pensate, ora, allo sconcerto di Rebmelech, il rabbino rappresentante di Dio, della legge ebraica: fare un processo a Dio stesso

Ma il rabbino non poteva esimersi dal processo perché quando si fa ricorso al giudice, questo deve dare la sua, sentenza; non può dire che non ne vuole sapere. Può prendere tempo per accertarsi dei fatti ma se c’è l’imputato deve il giudice cercare di farlo cadere. Rebmelech chiama Dio in giudizio e poi lo condanna perché non aveva mantenuto le promesse che aveva fatto ai figli d’Israele. Quindi lo condanno a mantenere quelle promesse.

Si conclude il racconto con l’imperatore che toglie la tassa sui matrimoni cosicché la figlia di Osé Wolf poté sposarsi.

Questo per dire come nella Bibbia il rapporto con Dio viene preso tanto sul serio -fino al punto d’essere citato in giudizio.

Quindi processo come itinerario versa Dio (“Mentis in Deum” come diceva San Bonaventura) e processo come tentativo di far cadere Dio, di trasformarlo da imputato in condannato (colpevole).

Torniamo a Dio perché non è mai scomparso, quello di Dio è un problema che la società moderna non ha mai risolto; fa finta di averlo risolto, d’aver detto la parola definitiva per o questo spettro di Dio sempre rimane. È un punto così oscuro, così irrisolto a cui si ritorna sempre, come il cane al suo vomito.

La società moderna nasce quando i teologi sono ridotti al silenzio; grazie al cupo silenzio dei teologi nasce la società moderna. La società moderna nasce dalla paura della morte. E il povero vate della società moderna, il filosofo Hobbes sa bene che alla base della società c’è l’angoscia, la paura di morire: sia di essere uccisi che di uccidere. Questa paura della morte deve essere regolata nei modi migliori, più appropriati. Allora la società moderna nasce dalla paura della morte. La teologia che abbiamo oggi si trova in questa scia perché viene in soccorso della società moderna per consolarla, confortarla, per parlare di bontà, di solidarietà dei valori necessari per la società. Ma dietro questi grossi discorsi, di valore, di solidarietà, di bontà c’è sempre la paura della morte data o ricevuta che ci porta sempre a darci una verniciatura di bontà.

Oggi si sono persi i valori perché non ci sono mai stati; erano le appiccicature alla nostra società.

Quindi è nata la teologia ecclesiale (ecclesia vuol dire comunità, società). La teologia ecclesiale è quella che viene in favore dell’ecclesialità, della società, è un Dio che viene a fare il tappabuchi della nostra società.

Tre quarti della teologia di oggi e del magistero della chiesa (parlo dei risvolti sociali della dottrina cristiana su cui Si possono mettere diecimila punti interrogativi) è tutta in funzione sociale che dovrebbe servire a migliorare il mondo. Quindi un Dio che sta solo in funzione di questa società per renderla meno brutta, meno orrenda di quello che è, nasce una teologia ecclesiale a politica, non perché la chiesa si interessa di politica, ma perché è un tipo di ideologia che serve alla polis, alla città, alla società. Dio serve da tappabuchi a questa società che fa acqua da tutte le parti perché è fondata sulla paura della morte, sia di dare la morte che di riceverla.

Se voi andate alla S.p.a. editrice cattolica, vedrete che la maggior parte dei testi sono di teologia sociale.

Alcuni teologi cattolici ragionano in questi termini:” A me non interessa che Dio esista o no, non interessa che Gesù Cristo sia venuto o no sulla terra, sia morto e sia risorto davvero, che siano vere queste cose sono di scarsa rilevanza; a me interessa l‘IDEA che Dio esista, l’IDEA che Gesù sia venuto sulla terra, l‘IDEA che Gesù sia morto e risorto. Interessa che queste idee -funzionino, siano funzionali a tenere buone e brave le persone.”

I teologi della demitizzazione, una scuola che nacque in Germania negli anni ‘30 in corpo alla filosofia esistenzialistica, in casa protestante dicevano che si dovevano vedere se queste idee su Dio e Gesù uomo che muore e risorge connesse con l’emozione, il sentimento, aiutano le persone a stare insieme, a volersi bene, a non ammazzarsi in modo tale che sia risolto il problema della sopravvivenza.

Siamo arrivati sulla faccia della terra a discutere se è bene a non sopravvivere e cosa si può fare per sopravvivere, come se il valore più alto fosse quello di sopravvivere.

Una teologia ecclesiale, politica, una teologia che vuole solo rendersi canto se l’IDEA di Dio, di Gesù funzioni socialmente, no se sia vero.

Alba società moderna serve solidarietà allora narreremo (teologia narrativa) di un Dio solidale con gli uomini.

Se poi un giorno vedremo che la nostra società è troppo solidale e vengono calpestati i diritti degli individui parleremo di un Dio individuo, cioè di quello che serve alla società perché non si ha il coraggio di guardare in faccia l’orrore che è nostro proprio, la paura che ci prende.

Il teologo non ha il compito di migliorare la società anzi ha il compito di peggiorarla, con tutti i suoi mezzi e soprattutto con l’esistenza di Dio; in modo tale che la gente sappia come stanno le cose ed in modo che si regoli come è meglio.

Il teologo vero non deve migliorare la società, altrimenti la teologia diventa antropologia.

Per -Fare un esempio: dice S. Giovanni “Dio è amore”; dice Feverbache (il filosofo ateo) cambiando la struttura della -frase “l’amore è Dio” ossia “quando noi ci amiamo siamo Dio”. La teologia è stata capovolta in antropologia. Da discorso su Dio diventa discorso sull‘uomo. Dio è amore, amore in sé stesso ma noi non siamo amore. Ma non è possibile che noi non siamo amore! Come la costruiamo la società, la comunità!?

Prendiamo l’espressione di S. Giovanni, la capovolgiamo: non più “Dio è amore” ma “l’amore è Dio”, cioè quando noi ci amiamo siamo Dio, quando formiamo una comunità di amore noi incarniamo la divinità. Questa è “la teologia sociale a politica o ecclesiale”.

Non è una teologia, è una teologia capovolta, una antropologia in cui l’uomo parla di sé stesso e dei suoi bisogni e si serve di Dio come tappabuchi, come categoria funzionale a questi suoi bisogni, a questi suoi desideri, e questo Dio come oggetto dei suoi desideri. Il teologo vero non migliora affatto la società ma la peggiora parlando di Dio e mostrando che Dio non è per niente l’oggetto dei desideri ma è l’indesiderato.

Vi ripeto adesso l’affermazione di un famoso scrittore letterato; Barges dice:” Il concetto d’in-Finito corrompe tutti gli altri concetti”. Corrompe il concetto di società, corrompe il concetto di bene, di belio.

Questa è la paura di avvicinarsi a Dio, perché appena lo pensiamo così com’è, tutto ciò che noi siamo, ci accorgiamo che non è niente e lo stesso tutto quello che ci riguarda.

Forse quest’esperienza l’abbiamo -Fatta quando eravamo un po’ più piccoli, adolescenti, era un’esperienza trasposta, non diretta. Quando in una notte stellata ci siamo fermati osservando il cielo e le stelle c’è venuta l’idea del cosmo dell’universo infinito. Abbiamo sentito un brivido, un freddo, una morte decentrata ed abbiamo abbracciato un altro che avevamo vicino per esseri sicuri di esistere ancora.

Abbiamo avuto un’intuizione del rapporto con l’infinito che corrompe tutti gli altri concetti. Abbiamo avuto paura, sentito il freddo, la morte perché chi si avvicina a Dio muore.

Il teologo deve essere il teologo puro non ecclesiale a politico o sociale, ma il teologo che ha la mente ben squadrata e che sopporta la freddezza dell’infinito. Un teologo che presenta Dio non come il desiderato ma come l’indesiderato. Questo è il teologo che ci permette di guardare in faccia le cose così come sono e specialmente di guardare l’orrore, ma nello stesso tempo di rimanere liberi. Perché chi guarda in -F accia l’orrore senza girare la testa quella persona finalmente è libera. Se invece guardiamo in faccia l’orrore e giriamo la testa perché abbiamo paura allora siamo ancora schiavi.

Questo è il compito del teologo.

Il teologo che mette sotto processo Dio nel senso che procede versa Dio e sa con quanto affanno procede perché più si avvicina più sente brividi, ma non ha paura di morire. Il teologo parla della morte come se fosse normale, la morte come se -fosse la stoffa della sua stessa esistenza, non addolcisce niente perché il teologo vero sa che la verità è profondamente ineducata (non maleducata che vuol dire che qualcuno l’ha male educata ma di per sé ineducata che non Si può trattare).

I teologi pur ormai Sofia scomparsi, ci Sofia i teologi politici, i teologi ecclesiali, sociali, narrativi. I teologi che ti sbattono in faccia le cose come stanno non ci sono. Se ci fossero i libri non li venderebbero e povere case editrici cattoliche: fallirebbero, andrebbero al macero.

Tutti siamo teologi, non esiste il teologo che ha fatto le scuole o non ha fatto le scuole. Inizialmente siamo tutti teologi e la prima teologia l’abbiamo avvertita in maniera forte in maniera potente quando abbiamo sentito il -freddo d’innanzi all’universo infinito. Tutti abbiamo avuto questa esperienza di sentirci spersi e dispersi dinnanzi alla nostra origine stessa. Di sentirci trafiggere da un gelo alla stessa parola “Dio” che non riusciamo neanche ad immaginarci così come è ma ce lo abbiamo piantato sempre qui, nel cervello.

Quindi nasciamo tutti teologi tant’è che siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio. Quindi non più che teologi possiamo essere. Poi la vita si preoccupa di trasformarci in -filosofi, in antropologi, in sociologi, in preti, in religiosi, in atei sotto vari camuffamenti ma siamo inizialmente tutti teologi.

Quali sono le vie che prende la teologia per cui smette di essere pura e si imbastardisce?

C’è una prima linea:

1) TEOLOGIA — RESA — FEDE — PREGHIERA

Altra linea:

2) TEOLOGIA — RELIGIONE – USO DI DIO

Altra linea:

3) TEOLOGIA — ANTITEISMO — RIBELLIONE — BESTEMMIA

Altra linea:

4) TEOLOGIA — INDIFFERENZA — ATEISMO

Sono quattro linee di sviluppo diverso: 1 teologia può svilupparsi in fede, resa e preghiera; (2) può svilupparsi in religione e uso di Dio; (3) può svilupparsi in antiteismo, ribellione e bestemmia; (4)

Può svilupparsi in ateismo e indifferenza.

La teologia può percorrere queste 4 strade.

Ateismo è diverso da antiteismo. L’ateo è uno sciocco, vuole fare il furbo, dirci che non c’è problema, vuol -Fare l’indifferente. Antiteista e colui che a Dio ci crede ma è decisamente contro.

Il filosofo Sartre in una sua opera “Le mosche” espone il suo pensiero su Dio e dice: “Se Dio esiste io non sono libero, ma io sono libero perciò Dio non deve esistere”.

In questo caso non è ateismo ma antiteismo, che è luciferino, è infernale ma è dignitoso. Mette a nudo il dramma dell’essere umano.

L’ateo è un uomo malta pratico; si chiede se Dio si mangia! Non si mangia ma ti mangia, Dio ti divora. Non dobbiamo andare a ricercare Dio, ma siamo invasi da Dio.

Dio non si vede, non si mangia, allora gli atei si dedicano al culto della praticità che è un altro tipo di religione in cui devi -Fare tutto per bene ogni giorno altrimenti te la passi male non in un altro mondo ma qui. Bè uno che dice di essere pratico qualche giorno vuole fare l’idealista, il meno pratico, non può.

Deve fare il pratico, seguire il culto della praticità. Beh, non è pratico e coerente viene punito non nell‘altro mondo che secondo bui non c’è ma viene punito in questo mondo.

Figura interessante è quella della fede, (a me dicono perché non insisti mai sulla preghiera, non ci troviamo mai a pregare, a -Fare una veglia di preghiera. Io preferirei un veglione. Io non sono contro alla preghiera. Pregare vuol dire arrendersi; prega chi si arrende a quel chiodo fisso che è Dio. Fede vuol dire decidere di arrendersi, mi arrendo nel senso mi consegno, mi costituisco dinnanzi a Dio, non ce la faccio più, come fa Giobbe che con Dio s’arrende. Le ultime parole di Gesù sulla croce “Padre nelle tue mani rimetto il mi a spirito” cioè “Padre i o m‘arrendo”.

La morte di Gesù sulla croce è la preghiera più alta perché la resa di Dio a sé stesso. Gesù l’uomo che più Si è avvicinato a Dio che era Dio stesso, la sua fine, è morto, si è arreso.

Preghiera vuol dire arrendersi e la fede è la decisione di arrendersi. Mi arrendo nel senso che non riesco più a prendermi sul serio, mi rendo canto che il concetto d’infinito corrompe tutti gli altri concetti, anche il concetto di bene.

Io oggi mi sento bene, mi voglio bene, voglio fare il bene. Dinanzi a questo concetto d’infinito diventa ridicolo tutto, mi corrompe, mi rovina i giorni, le notti, tutto. Mi scioglie in mano tutte le cose che voglio fare come se fossero ghiaccio. IL concetto d’infinito corrompe tutti gli altri concetti. Ma io non voglio che tutto si corrompa allora cerco di salvare qualcosa sotto questo aspetto: tutta la vita è un alternarsi di puntare i piedi e di arrendersi. Puntare i piedi ed arrendersi per tutta la vita è un peccato perché è un continuo tentativo di puntare i piedi per dire io vado. Ma poi quando vedo il concetto d’infinito mi viene da ridere e mi arrendo. Poi mi dipenda. Sembra, in termini patologici, la notoria psicosi circolare

Fatta di continua altalenarsi di depressione ed euforia. Questa è la Preghiera: arrendersi. Giacobbe lottò tutta la notte con Dio per strappargli la benedizione. Poi la notte finì e la mattina si accorse di essere sciancato. Dio gli aveva toccata il nervo sciatica. Da allora gli ebrei della carne non mangiano mai il nervo sciatica per ricordare il loro patriarca Giacobbe leso da Dio.

La messa è importante perché sull’altare è rappresentata tutta questa storia (non di Giacobbe) della resa dell‘uomo che si lascia corrompere dal concetto d’infinito.

Gesù corrotto dal concetto di Dio perché Si era avvicinato troppo a Dio. Questo è il senso della confessione in cui andrebbe detto il peccato della propria esistenza, di questo alternarsi tra puntare i piedi, parlare di bene, poi arrendersi e lasciarsi corrompere dal concetto di Dio. Il peccato è un data costitutivo di tutta la nostra vita. Per questo i Santi andavano a confessarsi più volte al giorno. Non perché facevano peccati ma perché avevano forte questa coscienza. S. Tommaso in un famoso inno “Adoro te devote” dice delle parole stupende “Quando contemplo te sparisce tutto” non esiste più niente, né bene né male.

S. Tommaso d’Aquino alla fine della sua vita dopo aver scritto tutte le sue opere sub letto di morte chiama il suo scrivano e chiede di bruciare tutte le cose che aveva scritto perché la considera paglia in confronto a quello che è Dio. Il concetto d’infinito ancora una volta aveva colpita anche S. Tommaso che aveva scritto le case più profonde e interessanti su Dio.

Il teologo inizia proprio lì il teologo che si arrende. Nella messa ognuno rivive il suo fatto personale è storia di uomini e di Dio: questa è la Messa; per questo è importante (non i canti che si fanno, agli spettacoli delle processioni offertoriali, tutte queste fesserie che danno spettacolo e che coprono, non permettano al tragico e al dramma di venir fuori). Per questo -Fare il prete è faticoso. È un dramma, credetemi, fare tre tragedie ogni domenica. Ia credo che il vangelo debba essere letto in modo storico progressivo. Anche nel Vangelo c’è un atteggiamento di Gesù di puntamento su sé e di resa continua. Nelle prime parti c’è più un Gesù conscio della sua missione, più forte e più sicura. Man mano che si avvicina verso la fine, il senso della resa, della -fede, del dichiararsi sconfitto aumenta sempre più.

Non dobbiamo dare lo stesso significato a tutte le espressioni di Gesù ma situarle nella sua vita, nel suo cammino che va da Nazareth a Gerusalemme che è il luogo della resa. A volte sembra che ci sia una contraddizione tra quello che Gesù dice prima e quello che dice dopo. La contraddizione esiste se pensiamo che Gesù sia sempre lo stesso, ma anche in Gesù c’è un processo per cui quello che dice prima viene superato da quello the dice dopo. La lotta e la resa. La fede non è altro che la resa, questo costituirsi davanti a Dio, ar-render-si. La fede completa è quando il concetto d’infinito ti corrompe talmente che non esisti più. I mistici avevano questo problema grandissimo, Si sentivano corrotti, non riuscivano più a par-lame durante una fase mistica, tutte le case tremende che hanno dovuta sopportare nella loro vita e poi… il senso del fallimento.

I grandi Santi al termine della loro vita hanno avuto chiarissimo il senso del fallimento della propria impresa. S. Francesco d’Assisi morì di crepacuore perché nella stesura dell’ultimo capitolo dell’ordine che aveva fondato fu messo da parte dai suoi stessi confratelli. Fu escluso perché ciò che bui voleva era esattamente il contrario di quello che i suoi ex seguaci volevano. Perché era cambiata la mentalità e bui ormai aveva fatto il suo tempo.

Gli ultimi Sogni di S. Giovanni Bosco emano apocalittici: vedeva la sua opera come un fallimento. Si arrendono anche sotto questo aspetto, non hanno più niente da di-fendere, da conservare. Una resa completa. Questo arrendersi al concetto d’infinito che ti corrompe giorno per giorno. Il teologo puro quello che ha la mente fredda che non si lascia prendere dalle emozioni, dai sentimentalismi stupidi, che guarda dritto in faccia l’orrore e che sa che l’unica libertà non è altro che il riflesso della necessità in una coscienza tormentata, questa è la libertà non la capacità di fare questo, quello o quella. Libertà e necessità Si sposano ed il sentimento che nasce è la gioia, la dignità, guardare l’orrore senza girare la testa, guardare il necessario senza divertere (divertere = voltare le spalle alla necessità e credere di andare altrove ma non si va da nessuna parte perché finisce la corda). La fede è la resa. La morte di Gesù sulla croce è l’atto più alto di preghiera perché è la resa assoluta. Non c’è una resa più forte, più decisa più profonda e più libera. La preghiera è la resa.

(Prende la parola il prof. Troncoli)

Volevo dire: il senso di resa l’ho trovato anche quando durante la preparazione della mia tesi d laurea, mi sona imbattuto nella parola FIDES. Uno studioso del linguaggio aveva scoperto che prima della parola viene il gesto. Allora che succede: due pastori corrono, fanno una gara. Colui che perde la gara arriva dopo, strappa un filo d’erba e lo porge all‘altro con le mani incrociate per dire: mi arrendo, legami. La parola Fede ha il suo corrispondente in greco nella parola PISTIS e la parola credere in greco si dice PISTEUO. Pisteuo viene dall’indo-germanico PIDESLO che significa pignatta, perché negli scavi fatti in una certa zona hanno scoperto che le pignatte primitive si facevano con della creta tenuta insieme da rami di salice intrecciati. La creta veniva cotta ma sul prodotto restava l’intreccio dei rami di salice che teneva insieme la creta. Pideslo significa pignatta ma significa anche intreccio. Significa legami della materia attraverso questa forma di sviluppo antico. Credere Viene dal’Indo-germanico CRED-DE che significa legare il proprio cuore.