Teologia 07 del 12.01.1998

Il concetto di “masochismo” è diverso da ciò che abitualmente noi pensiamo. Per masochista noi intendiamo una persona che gode nell’essere percossa, battuta. Adattando questo concetto alla frequentazione dei corsi tenuti a San Ciro potremmo affermare che noi godiamo di una specie di piacere masochistico nell’essere percossi e battuti nelle nostre cattive convinzioni ed ideologie.

Nella realtà non è così. Il masochista non è una persona che gode delle sofferenze, non foss’altro che per l’assurdità di questo concetto, in quanto, tranne casi evidenti di perversione, non esiste al mondo una persona che possa godere dei propri dolori. Il masochista, piuttosto, è una persona intelligente. La parola “masochista” deriva dal nome del Conte di Masoch, che si diceva preferisse, durante i rapporti con la sua amante, essere percosso e “mazziato”, senza raggiungere mai il fine; ecco perché si pensa che essere percossi comporti un gran piacere.

Il masochista vero prova piacere nel sapere che non raggiungerà mai il fine che vorrebbe raggiungere, perché, essendo intelligente, sa benissimo che se dovesse raggiungerlo, il piacere che ne proverebbe sarebbe di gran lunga inferiore alle aspettative.

Anche Leopardi, nel “Sabato del Villaggio”, era di questo parere. Egli riteneva il Sabato migliore della Domenica, in quanto il desiderio di aspettative che la Domenica proponeva era molto più piacevole di ciò che poi la Domenica effettivamente offriva, deludendo molte attese. Quindi, si capisce l’intelligenza del masochista, evidente nella sua capacità di mantenere il fine lontano da lui in una sorta di filo sempre ben teso. Proprio in questa tensione verso un fine – e la tensione verso un fine che mai si raggiunge si chiama “desiderio” – si può trarre molto piacere. Gli innamoramenti impossibili che si possono vivere a cinquanta o sessanta anni, questi amori ideali, hanno proprio questo fine: si mettono in atto solo perché si sa bene che non si potranno mai raggiungere. È evidente che proprio perché non si potranno mai raggiungere, questi  amori sono capaci di sostenere una tensione continua. La tensione continua – lo abbiamo detto – si chiama “desiderio” ed il masochista vive proprio di questo desiderio.

Il masochista ha bisogno di un sadico, di una figura, cioè, che sposti continuamente in avanti l’oggetto che il masochista desidera, senza che quest’ultimo possa mai raggiungerlo.

Anche in queste conferenze, qui in chiesa, sembra che tra il pubblico ed il relatore si sia instaurato un rapporto di sado-masochismo, in cui il sadico sarei io.

È opportuno ricordare che il rapporto sado-masochista è il rapporto tra un soggetto ed un oggetto. Il soggetto è colui che è sottoposto a questo gioco; l’oggetto è ciò che si para davanti, sbarrando il cammino e spostandosi continuamente in avanti in modo che il soggetto non possa mai raggiungerlo. Se analizzassimo la nostra esistenza scopriremmo quanto siano presenti in noi questi giochi sado-masochistici.

Ritornando al dubbio espresso poc’anzi, si può in tutta tranquillità affermare che attraverso la battitura martellante di concetti e di pensieri che animano i corsi che stiamo facendo sia possibile rendersi meglio conto delle cose così come stanno.

Ritorniamo al concetto di teoria espresso ed analizzato qualche lezione fa. La teoria è una favola che organizziamo per renderci impossibile la visione delle cose necessarie e che ci spaventano. Effettivamente le cose necessarie ci spaventano proprio perché, essendo necessarie, non ammettono giochi e manipolazioni, per cui bisogna riconoscerle così come sono. Le verità sono le cose necessarie e le verità ci spaventano proprio perché necessarie. Le cose necessarie, dunque, non danno spazio ai nostri giochi, ma soprattutto ai nostri desideri. Chi conosce le cose necessarie la smette di ricercare i desideri, perché questi non hanno più senso per lui.

La parola “teoria” significa “scappare”, fuggire dalle cose necessarie, dalle cose che ci necessitano. C’è un brano del Vangelo di San Luca in cui Gesù ringrazia suo Padre per aver tenuto nascosto il concetto di teoria ai saggi ed ai potenti e per averlo rivelato agli umili, perché “così ti è gradito”. I saggi ed i potenti sono quelli che continuamente costruiscono delle teorie, che sdottoreggiano su tutto. Queste favole, poi, vengono date in pasto al popolo che le assimila. È questa la missione odierna del saggio e del dotto: costruire teorie per consolare l’umanità e tranquillizzarla. A pensarci bene è una cosa questa che è sempre esistita. San Pietro, infatti, nella seconda lettera dice: “Infatti, non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.” (2 Pt 1,16); affermava, cioè, che si era cristiani non perché si era creduto alle favole, ma perché si era visto, toccato e sentito. In confronto ai saggi ed ai dotti, gli umili sono quelli che non hanno teorie. È un lavoro tremendo riuscire a non avere teorie, perché ottenere ciò significa abolire ogni forma di consolazione e questo ci riconduce al battesimo, al suo sommergere, battere, distruggere.

Gli umili sono quelle persone che guardano alle tre necessità – Dio, la Morte, il Sesso, inteso come separazione – senza bisogno di crearsi delle favole.

Sono state create molte teorie nella vita dell’umanità. Ad esempio la teologia è una favola, in quanto nata da un altro sapere, la “Teodicea”. La parola “teodicea” deriva dal greco ed è composta da “Teos” – “Dio” – e “dicea” – “giustizia”. Quindi la Teodicea è la “giustizia di Dio”. La Teodicea è anche il giustificare Dio.

Si può affermare che la più grossa difficoltà che si prova nell’intendere l’esistenza di Dio sta proprio nell’esistenza del “male”. È come dire: “come mai, se esiste Dio, esiste anche il male?”. È una assurdità il pensare il concetto appena espresso, perché non c’è nessun rapporto tra Dio ed il Male. La Teodicea aveva proprio il compito di affermare con certezza che è possibile la duplice esistenza di Dio e del Male, perché l’uno non esclude l’altro. L’intento era buono ma favolistico, in quanto il vero intento della Teodicea era quello di difendersi da Dio. La Teodicea, oltre a difendere Dio, diceva come Dio doveva essere, quali attributi doveva avere.

La scienza – lo sappiamo bene – ha il compito di tentare di prevedere che cosa accadrà; la più grande paura dell’essere umano è quella di essere dinanzi ad eventi imprevedibili, da qui la sua assoluta necessità di mettere in atto tutta una serie di meccanismi capaci di prevedere che cosa avverrà. La Teodicea, classificando per bene Dio in tutti i suoi attributi, diceva con assoluta convinzione che Dio era così e non poteva essere diversamente, in modo tale da potersi difendere da Lui. Questo motivo di fondo della Teodicea è passato poi nella Teologia.

Un altro esempio di teoria è trattata nell’opera di primaria importanza del filosofo K. Marx, ossia “Il Capitale”. Nel “Capitale”, Marx cercava di trattare l’economia in modo scientifico; in realtà altro non era se non la costruzione di un sistema di previsione a scopo difensivo. Secondo la  teoria di Marx per quantificare il costo di una merce basta sommare le ore necessarie per produrre la merce stessa, quindi stabiliva una corrispondenza diretta fra valore e lavoro. Questa teoria, in realtà, serviva a prevenire tutti i capricci del mercato, dove, invece, veramente si realizza il costo di una merce. La quantificazione del mercato realizza il costo: a valle, non a monte come Marx desiderava per creare un sistema che garantisse un assoluto controllo. Un’altra finalità era quella di dimostrare che, se il costo di una merce dipendeva unicamente dalle ore di lavoro, quindi dal suo ammontare economico, quindi dall’operaio, spettava allo stesso operaio fare la sua rivoluzione nel mondo del lavoro per appropriarsi di ciò che era assolutamente suo. La scienza è un sistema di favole che cerca di sottrarre l’uomo alle sue angosce.

È possibile anche affermare che la parola è un tentativo di teoria, perché la parola la usiamo per prendere le distanze, per non guardare. A volte, quando ci troviamo in imbarazzo – ad esempio con uno sconosciuto – utilizziamo la parola per sfuggire all’angoscia che questa vicinanza comporta. La parola è il primo modo di prendere le distanze dalle cose così come sono. Ogni parola è un inizio di teoria, tranne le parole che provengono dal silenzio.