Critica psicoanalitica 02 del 15.02.1999

Che cos’è il Carnevale? Per noi cristiani c’era prima l’usanza di non mangiare carne il venerdì; perciò, si pensa che in ambito cristiano la parola derivi da “carne-levare” (che toglie la carne): infatti dopo l’ultimo giorno di Carnevale, viene il Mercoledì delle Ceneri, inizia la Quaresima e non si può mangiare più la carne.

Questa parola, però, esisteva anche presso quelle culture che non avevano niente a che fare con le usanze del Cristianesimo, non avevano il problema di non mangiare carne il venerdì. In queste altre culture, infatti, la parola “Carnevale” assume un altro significato: deriva da “carrum-navale”, il carro navale, perché il Carnevale veniva dal mare. Si trattava di un carro a forma di nave che veniva dal mare e approdava a terra. Perché proprio dal mare? Perché gli antichi avevano una teoria secondo la quale la vita veniva dal mare. La famosa teoria del “brodo primordiale” (da questo brodo, mescolato con aminoacidi e proteine, è nata, secondo la teoria, la prima cellula). L’ipotesi era che la vita venisse proprio dal mare, formatasi da una cellula in questo brodo primordiale. Questa convinzione l’avevano anche gli antichi, secondo i quali la vita veniva dal mare.

Ma che centra la vita con il Carnevale? Centra, perché il Carnevale portava a chiusura, a compimento le feste che precedevano l’inizio dell’anno. L’inizio dell’anno non era, come è adesso, il 1° Gennaio, ma coincideva con l’inizio della primavera. La primavera – quindi verso marzo – era l’inizio dell’anno. Infatti, l’anno era di dieci mesi (perciò “Dicembre”, da “dieci”). Dopo l’ultimo mese c’erano due mesi senza nome, corrispondenti a gennaio e febbraio (senza nome, perché era il periodo dell’inverno e l’inverno è senza nome, perché rappresenta la morte). In questo arco di tempo – i due mesi corrispondenti a gennaio e febbraio – si tenevano le feste di fine ed inizio anno. L’ultimo giorno di Carnevale, arrivava dal mare questo carro navale che portava l’inizio del nuovo anno.

Di qui anche l’usanza dell’uovo di Pasqua. L’uovo di Pasqua non ha niente a che fare con la risurrezione: l’uovo sta proprio ad indicare l’inizio della vita. Ecco perché la Pasqua si festeggia più o meno nel periodo di marzo e con l’usanza delle uova, perché in queste uova era contenuto il germe della vita.

Il carro navale portava l’inizio della vita a terra, dopo di che si bruciava. Bruciato il carro navale iniziava il nuovo anno. Questa è l’origine del Carnevale.

Poi, quando hanno portato l’anno a dodici mesi, hanno inserito il Natale cristiano, l’Epifania e spostato l’inizio dell’anno al 1° Gennaio, esattamente sette giorni dopo il Natale. Il periodo di Carnevale è stato spostato: dal 17 Febbraio fino all’inizio della Quaresima, il Mercoledì delle ceneri. È stata fatta un’opera di cristianizzazione di questi riti pagani.

In cosa consiste il Carnevale? Intanto, nei giorni di Carnevale, regnava il caos, il disordine, il maggior disordine possibile. Era un disordine regolato, perché era la stessa autorità civile a far sì che si creasse il disordine. Per esempio: a Roma c’era l’usanza, nei giorni di Carnevale, che i padroni diventassero servi e i servi diventassero padroni; è chiaro che i servi stavano attenti a non tiranneggiare troppo i padroni, perché poi ritornava tutto come prima. Era, quell’occasione, una valvola di sfogo.

Dal punto di vista cosmico/religioso il carnevale era un tentativo di ritornare al caos primordiale, dal quale poi ci si allontanava con l’inizio della Quaresima. Infatti, nel libro del “Genesi” sta scritto: “In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn 1,1-2). In questo caos Dio incominciò a separare la luce dalle tenebre, il giorno dalla notte, gli animali che stanno sulla terra da quelli acquatici, la femmina dal maschio. Così tutta la creazione è un’opera di ordinamento e di separazione secondo uno schema primario: alto e basso, sopra e sotto, destra e sinistra, terra ferma e acqua; insomma, tutto deve essere distinto e ben separato. Questo perché il caos era l’ossessione e la paura delle culture antiche, perciò tutta la creazione consisteva non tanto nel creare tutte le cose quanto nel mettere ordine tra le cose che esistevano. Ecco perché – questo è importante – quando gli esseri umani delle culture antiche volevano mettere in ordine la società si riferivano al modello cosmologico, cioè la società umana doveva rispecchiare le stesse regole del cosmo: quindi la società umana era il microcosmo che si modellava secondo il proprio macrocosmo. Anche nella strutturazione delle società civili l’ordinamento veniva formato secondo un codice primario tipico e tutte le cose venivano distinte in maschili e femminili, in cibi cotti e crudi, in utensili maschili e femminili, in luoghi maschili e femminili: tutto veniva disposto secondo il codice primario, perché – dicevano gli antichi – se non ci fosse stato il codice primario ci sarebbe stata l’intromissione di una realtà nell’altra, un’invasione, si sarebbe tornati al caos primario.

Poiché durante l’anno si creavano tensioni notevoli in tutte le società, si sentiva il bisogno, una volta all’anno, di ricreare il caos originale, di tornare indietro, perché contrariamente a quanto ritengono le nostre culture, secondo le culture antiche – questa è la differenza tra culture antiche e culture moderne – il meglio sta prima e il peggio viene dopo. Per le culture moderne, invece, il meglio sta dopo e il peggio è ciò che è stato prima. hanno una impostazione evolutiva, o evoluzionistica, cioè futurologa, futuristica, per cui col passare del tempo le cose migliorano sempre. Le culture moderne guardano sempre al futuro come possibilità e certezza che tutte le cose andranno bene. Secondo gli antichi, invece, le cose migliori stavano prima, quindi avevano una concezione diversa del tempo. “Il tempo è corruttore” – dicevano gli antichi. Le culture moderne, invece, sostengono che il tempo è “promessa” e “apertura”.

Mentre gli antichi dovevano tornare sempre all’origine, all’originario, per trovare quelle forze ancora vergini, non guastate, non rovinate – un ritorno al “passato originale” -, nelle culture moderne lo sguardo è rivolto sempre al futuro.

Le culture classiche antiche rappresentavano il tempo sotto la forma del dio Kronos, il quale da una parte faceva i figli e dall’altra se li mangiava: il tempo divoratore di sé stesso. Questa è la concezione che hanno gli antichi del tempo.

Chi ha ragione, le culture antiche o quelle moderne? Francamente, non lo so?!

Queste feste di Carnevale consistevano nel riportare la società civile al caos originario, riprendere, rifare di nuovo la struttura sociale, come se si dicesse: “ricominciamo da capo, da questo momento si riprende”. C’era, insomma, questo tentativo di riprendere le forze, le energie originarie.

In cosa consisteva questo caos originario che si creava nella società nel periodo di Carnevale? Consisteva nel fare tutto esattamente al contrario: la forma più chiara era quella del maschio che si vestiva da femmina e viceversa, perché tutte le culture occidentali erano basate su questo principio dicotomico del maschile e femminile, il crudo e il cotto (per esempio il cibo crudo era competenza dei maschi che andavano a caccia, il cotto competeva alle femmine), tutto era diviso secondo un criterio sessuale: esistevano gli alberi femminili e gli alberi maschili, frutti femmina e frutti maschio, tutto diviso.

Mi ricordo quando ero piccolo e ci si vestiva a maschera: le maschere non erano i vestiti di Arlecchino, Pulcinella ecc. Vestirsi a Carnevale consisteva – non so se nei vostri paesi si faceva così – nel mettersi i vestiti al rovescio: la giacca messa al rovescio, i pantaloni rovesciati, ecc. Una società rovesciata, caotizzata.

L’ultimo giorno si bruciava il famoso Carnevale, o si bruciava qualcos’altro (per esempio si bruciava un fantoccio che rappresentava il Carnevale). Questo fantoccio ucciso a Carnevale corrispondeva alla strega, la Befana, che sta sempre all’inizio di ogni anno.

Nella cultura moderna, futuristica, futurologa, il Carnevale non ha niente a che fare con questo ritorno al passato, tanto è vero che lentamente le maschere si sono sostituite, rimane solo qualcosa nei carri allegorici che mettono sotto critica e sotto accusa i poteri politici – lì c’è questo famoso ribaltamento per cui i servi diventano i padroni e i signori, i potenti (che sarebbero i politici) diventano servi -; è rimasto solo questo.

Ultimamente ho sentito che a Putignano non ci sono più carri che criticano i politici, ci sono altri temi: anche questo si sta perdendo.

Il Carnevale nacque con queste finalità e morirà, perché queste finalità sono state perse.

Ritorniamo al nostro tema. L’altra volta parlammo della psicologia e cercammo di chiarire un po’ il concetto di “psiche”. Che cos’è la psiche?

La psiche è la “relazione io-mondo”: se la psiche la vediamo dal punto di vista dell’“io” che si relaziona al “Mondo”, la chiamiamo “psiche”, se invece la vediamo dal punto di vista del Mondo, la chiamiamo “corpo”, “soma”.

La psicologia studia questa relazione, la ritiene validissima, la ritiene essenziale e lavora appunto perché questa relazione possa rafforzarsi sempre più; dunque la psicologia lavora attorno alla relazione io-mondo e cerca di adattare quanto più possibile l’“io” al “Mondo”. Quando la relazione io-mondo viene a mancare, si incrina, si falsifica allora subentra la psicoterapia. La psicoterapia è la terapia della psiche, cioè la cura della psiche, la cura della relazione io-mondo e, siccome la psiche è la relazione io-mondo vista dalla parte dell’“io”, la psiche non va a curare l’“io”.

La psicologia è lo studio delle leggi di struttura e di funzione della relazione io-mondo; quando questa relazione si incrina, si rovina, interviene la psicoterapia che è la cura di questa relazione, fatta però con interventi sull’“io” e non sul “soma”.

La “psichiatria”, invece, in questa relazione io-mondo incrinata, agisce non sull’“io”, ma sul “soma”, sul corpo: il farmaco interviene sul soma, sul corpo.

La “psicosomatica” è una branca della medicina che studia i disturbi del soma di origine psichica, cioè l’ulcera gastrica, l’asma, ecc. I tumori, per esempio, hanno molto spesso alla base un “io” stressato, che indebolisce il sistema immunitario – il soma – per cui è facile l’attacco di un processo tumorale.

La psicoanalisi è una brutta bestia. La psicoanalisi – come dice la parola stessa – è la distruzione della psiche: se uno vuole farsi “scassare” la psiche deve andare dallo psicoanalista. Infatti, la parola “psicoanalisi” significa “dissolvimento della psiche” (“analisi”, dal greco “analiuo”, che vuol dire “dissolvere”, “sciogliere”).

Quindi la psicoanalisi è il dissolvimento della psiche, il dissolvimento della relazione io-mondo. La psicoanalisi ha alla base – secondo me – la convinzione che tutti i guasti dell’essere umano derivino proprio dalla relazione io-mondo, per questo la psicoanalisi ripromette, si prefigge lo scopo di analizzare la psiche, di dissolvere la psiche, dissolvere la relazione io-mondo, in quanto causa di tutti i disturbi prima esistenziali e poi anche somatici.

Alcuni ritengono che la psicoanalisi possa essere una cura per la psiche, ma in realtà la psicoanalisi non potrà mai curare la psiche. Freud stesso lo riconosceva, quando affermava che la psicoanalisi non cura, serve solo per prendere coscienza dei problemi grossi che abbiamo dentro di noi: più di questo la psicoanalisi non può fare. La psicoanalisi è un’opera di “coscientizzazione”, secondo quello schema che vi ho dato l’altra volta di “io” e “coscienza”: l’“io farisaico”, la “coscienza pubblicana” (ecco perché quella è una parabola molto significativa).

Mentre la psicoterapia e la psicologia tentano di curare e di rafforzare sempre più l’“io” nella relazione col Mondo, la psicoanalisi scava tutto, cerca di riportare tutto all’orizzonte della coscienza. La coscienza è proprio la distanza che ognuno di noi prende dal suo “io”, cioè dalla sua relazione con l’“io” (coscienza che poi diventa abissale nella psicoanalisi). L’“io” – questa costruzione farisaica – va in frantumi. Il rischio della psicoanalisi, per le persone deboli, sta nell’eventualità di ritrovarsi da un momento all’altro senza un “io”, perché l’“io” per certe persone è l’ultimo aggancio, l’ultima sponda. Ora, è vero che è l’ultimo aggancio, l’ultima sponda, ma è anche l’ultima malattia che deve essere curata: se non si cura questa malattia, la malattia dell’“io” e della sua relazione col Mondo, certi problemi si porranno continuamente. Cos’è l’“io”? L’“io” è la proiezione del Mondo.

Dovete capire che la realtà assoluta è soltanto Dio, il resto è sempre relativo. Il Mondo, pur nella sua assolutezza, cerca di creare un qualcosa di opposto a sé, qualcosa che sta di fronte a lui, ma che tuttavia non sia indipendente da lui, qualcosa che rimanga legato al Mondo. L’unica possibilità è che il Mondo si proietti fuori di sé. Questa proiezione del Mondo fuori di sé è l’“io”. L’“io” non è altro che lo stesso Mondo proiettato fuori di sé. Il Mondo entra in un giuoco dialettico, cioè dà all’“io” la sensazione di essere veramente libero e autonomo, ma in realtà è il Mondo stesso che ha creato l’“io” a sua immagine e somiglianza: questo è il tranello del Mondo e dell’“io”.

Proprio perché il Mondo è una struttura assoluta, non permette che ci sia qualcosa di libero di fronte a sé, allora deve dare all’“io” l’impressione di libertà e autonomia, ma in realtà è lui stesso – il Mondo – che è racchiuso in un giuoco dialettico.

Difatti, quando voi esaminate a volte il vostro “io”, vi accorgete che è fatto a immagine e somiglianza del Mondo, è il doppione del Mondo. Ed è il Mondo che regola sempre questo “io”.

La psicoanalisi dovrebbe aver capito queste cose, dovrebbe perciò provvedere a distruggere questo “io” e mettere al posto dell’“io” la coscienza. L’“io” e la coscienza sono due concetti diversi: l’“io” è una costruzione, la coscienza è crisi di ogni costruzione possibile.

Ora, mentre la psicoterapia lavora sempre attorno all’“io” costruttivo, la psicoanalisi è il tentativo abissale di distruzione dell’“io”.

Tante volte le persone un po’ deboli mi chiedono di fare psicoanalisi con me. Non è che la cosa sia facile! Per la dialettica “servo-padrone”, uno ha bisogno sempre dell’altro, ha bisogno di avere sempre qualcosa di fronte a sé: ho bisogno di un altro che mi definisca. Lasciare la coscienza da sola, senza “io” e senza Mondo, è un rischio notevole per le persone che fanno l’analisi; molto spesso non è altro che una sorta di psicoterapia mascherata. Infatti, esiste anche una psicoterapia ad andamento analitico, cioè una psicoterapia che si serve degli stessi procedimenti della psicoanalisi: come se fosse possibile usare procedimenti psicoanalitici per raggiungere fini opposti a quelli che si prefigge la psicoanalisi!

Freud, infatti, diceva che la psicoanalisi non è una forma di cura, è solo un atto di presa di coscienza. Una presa di coscienza profonda, abissale. Di che cosa?

La psicoanalisi non è una cura, perché il destino non si può curare come una malattia. Noi, tutti i giorni, curiamo le nostre malattie, ma sappiamo che anche se le nostre malattie vengono curate il nostro destino non può essere mai curato. Sappiamo che c’è un destino dentro di noi che non può essere mai curato e che quindi, pur andando tante volte dai medici, sappiamo esserci qualcosa di più profondo che non può essere curato. Questa parte che non può essere curata si chiama “destino”.

La psicoanalisi è lo scoprimento del destino e quindi della mancanza di cura del destino; la psicoanalisi afferma a chiare lettere che il destino non si può curare: se qualcuno pensa di andare dal medico a guarirsi e guarendosi pensa di curare anche il suo destino, sta pensando una grossa fesseria, perché mentre va al medico per curarsi può darsi che un altro male sia già pronto: l’altro male che è già pronto ci ricorda sempre il nostro destino, il destino della morte. Il destino nell’essere umano non può essere curato.

Bisogna distinguere fra la “morte strutturale” e la “morte evenenziale”: la morte evenenziale è quella che si presenta con le tante malattie che si possono avere; la morte esistenziale, strutturale, è quella che è inscritta nella nostra struttura fisica, è il nostro destino. Ora il fatto di curare le malattie, mediante le quali arriva la morte evenenziale – cioè come evento – non significa che stiamo curando il nostro destino. La psicoanalisi – secondo me – è proprio la ricerca del destino, la ricerca profonda, spassionata, senza veli innanzi agli occhi.

Il destino è ciò che non può essere mai curato: non c’è cura per il destino! L’errore sta nel credere che la psicoanalisi curi: la psicoanalisi non cura perché si può curare ciò che oggi c’è, domani non c’è e che dopodomani potrebbe esserci di nuovo, ma ciò che sta sempre e si identifica con noi stessi – cioè il nostro destino – non può essere mai curato.

Avere dinanzi agli occhi il proprio destino – poi si vedrà quale sia – giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, non è una cosa facile da accettare, ma è un lavoro della psicoanalisi, perché la psicoterapia è una forma più addolcita.

Non esiste, però, una sola psicoanalisi, esistono tante psicoanalisi e a volte sono sballate, perché sono delle psicoterapie camuffate; ma anche quelle che non vogliono essere cura, ma soltanto scoprimento, accertamento del destino, anche quelle variano. Il destino è la parte di noi che fa un tutt’uno con noi, quella parte di noi che sorride quando andiamo a curarci continuamente per tutti i nostri guai, quella parte che se la ride perché ci dice: “curati, curati scemo, tanto il tuo destino è segnato”. Fare la pace con il proprio destino è importante: purtroppo noi tentiamo di rimuoverlo sempre dal campo della coscienza e il destino tolto dal campo della coscienza diventa l’“inconscio”. L’inconscio non è altro che il destino rimosso, che dà la possibilità all’“io” di costruirsi: tanto più il destino viene rimosso tanto più l’“io” si costruisce; quanto meno il destino viene rimosso tanto meno forte è l’“io”.

Cos’è questo destino? A questo punto tutte le psicoanalisi prendono strade diverse. Per Freud, per esempio, il destino era il “triangolo edipico”.

Ognuno scuola psicoanalitica individua una “scena primaria” da cui partono tutti i processi di formazione della psiche. Questa scena primaria, che viene rimossa dal campo della coscienza e portata nel campo della non coscienza, forma l’inconscio; dunque si tratta di andare a scoprire quale sia la scena primaria e qui le psicoanalisi si differenziano.

Il problema è trovare quale sia la vera scena primaria, quella dalla quale ci siamo allontanati perché siamo rimasti inorriditi. Essendo rimasti inorriditi l’abbiamo subito rimossa, ma non abbiamo perso totalmente la coscienza di ciò che abbiamo rimosso, altrimenti il lavoro di psicoanalisi non si potrebbe fare. Niente è tanto inconscio da non potere ritornare alla coscienza. Dobbiamo individuare la scena primaria da dove siamo fuggiti inorriditi e che abbiamo rimosso dal campo della coscienza portandola nel campo del non sapere.

Siccome questa scena primitiva è in movimento, in ebollizione, non sappiamo le vie che può prendere, le vie più impensate, inimmaginabili.

Attenzione: con la parola “destino” non voglio intendere il destino così come è inteso comunemente (per esempio, la moglie dice al marito: “non uscire oggi, vammi a fare quel servizio”. Il marito non va: va a lavorare e viene investito da una macchina e la moglie dice: “vedi, era destino”). Per destino non intendo un evento particolare: perciò – ho detto – si distingue la morte evenenziale dalla morte strutturale.

Per “destino” intendo ciò che non può essere curato.