Critica psicoanalitica 05 del 20.12.1999

La volta precedente parlai della relazione. Ogni relazione è un danno, è un errore. Qualcuno si meravigliava, perché in fondo noi siamo sempre in relazione con le persone. Per cui, che dobbiamo fare? Dobbiamo isolarci? Obiezione ormai scontata, quasi che il contrario della relazione sia l’isolamento. Se per relazione intendo il fatto di stare con quello e con quell’altro, allora, eliminando la relazione, sono costretto all’isolamento. Ma non è questo il concetto di relazione.

Essere in relazione non significa “stare con…” o “andare con…”, perché posso benissimo stare con o andare con il diavolo, ma non stare in relazione con il diavolo. Infatti “stare con…” o “andare con…” non vuol dire stare in relazione.

Purtroppo, le parole si usano un po’ a sproposito, perché non si capisce la portata, il significato della parola. Ogni parola è gravida di significato: non posso dare ad una parola il significato che io voglio, perché questa volontà di dare ad una parola il significato che io voglio si chiama “volontà interpretante”, ed è una volontà di potere, di potenza, per cui io prendo una parola e la faccio diventare un’altra. In questa volontà di potenza non mi interessa e, anzi, non so nemmeno cosa la parola significhi. Sono io a stabilire cosa la parola deve significare, cioè la parola diventa altro da quello che è.

Come dico spesso: le guerre più grosse, le liti più grosse si fanno per l’uso improprio delle parole.

La parola “relazione” non significa “stare con…” o “andare con…”. Quando una persona è in relazione, vuol dire che la sua identità gli viene data dalla persona o dalla cosa con cui è in relazione. Chi è che dà al padre l’identità di padre? È il figlio. Chi è che dà al figlio l’identità di figlio? È il padre. Non può esserci un padre se non c’è il figlio che gli dà questa relazione e non può esistere un figlio se non c’è un padre che gli dà questa relazione. Quindi, la relazione consiste nell’avere nell’altro la propria identità, cioè è l’altro che ci conferisce la nostra qualità, la nostra identità.

Se io dico “sono amico di…”, è l’altro che mi dà l’identità di amico. Quindi, nella relazione, la mia identità è nelle mani dell’altro, tanto è vero che se un figlio, per esempio, si ammazza o dice di non voler essere più figlio, in quel momento il padre smette di essere padre.

Che cosa c’entra la mancanza di relazione con l’isolamento? Non c’entra niente. Io non ho moglie, non ho figli, ma sto con chi mi capita di stare, senza essere in relazione con nessuno. Guai se pensassi: “io esisto soltanto se voi state qui in chiesa a sentirmi”. È chiaro che le relazioni ci sono. Padre, madre, figlio, figlia, fratello, sorella: sono tutte relazioni, ma io dico che c’è qualcosa che sta prima e dopo ogni relazione, perché quando le relazioni cessano, il soggetto, la persona rimane.

Che cosa sta prima e dopo la relazione? C’è la persona. È importante ritenere che la persona ci sia prima e dopo la relazione, altrimenti la mia identità, la mia essenza, la mia esistenza se ne va insieme alla relazione: “io sono il fidanzato di…”; se quella, poi, non mi vuole più bene, allora io crepo e viceversa.

Io sono contento quando la gente mi odia, allora sono libero, perché se mi vuole bene, vuole qualcosa da me.

Nella relazione – ricordatevelo -, solitamente, si possono avere tre tipi di valore: valore d’uso, valore di scambio e valore di desiderio. La relazione si basa solo sul fatto che l’uno sia o no valore d’uso per l’altro che lo definisce. Se il padre non si comporta come tale verso il figlio, che fa il figlio? Gli dà un calcio, perché non è valore d’uso per lui, non lo può usare. Ed è chiaro che il padre starà male se il figlio, che sta in relazione con il padre, non è valore d’uso per il padre.

Valore di scambio: quando avviene lo scambio? Avviene quando è stato soddisfatto il valore d’uso e rimane una quota marginale. Questa è la teoria del marginalismo. Ora, della quota marginale, cioè quella quota che non mi serve più per soddisfare i miei bisogni, cosa ne faccio? La scambio! Un marito, per esempio, dopo che la moglie ha soddisfatto i suoi bisogni, è stata per lui valore d’uso, mette nello scambio la quota marginale che avanza, per esempio, per fare carriera; e viceversa.

Il valore di desiderio è in rapporto con la distanza e con l’impossibilità di usare il valore d’uso e il valore di scambio. Quanto più un uomo e una donna “se la tirano”, tanto più diventano valore di desiderio. Non bisogna “tirarsela” troppo, altrimenti l’altro diventa indifferente, la relazione non scatta più: bisogna far finta di avvicinarsi – si chiama “gioco della seduzione” – ed usare il bastone e la carota. Il valore di desiderio è proporzionale all’impossibilità di raggiungere l’oggetto e di fare di questo oggetto valore d’uso e valore di scambio.

A mio parere, la relazione si pone su questi tre valori.

Ecco perché le relazioni sono a rischio, sono pericolose, sono dannose. Bisognerebbe proprio purificarle.

La parola “relazione” deriva dal latino “refero”, che vuol dire “fare riferimento”. Nella relazione non si esiste se non facendo riferimento ad un altro. Il figlio, per esistere come tale, deve far riferimento al padre. Il padre, per esistere come tale, deve fare riferimento al figlio.

Ecco perché Gesù dice: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Cosa sta dicendo Gesù, che bisogna uccidere il padre, la madre, il fratello, la sorella, ecc.? No, non sta dicendo questo, sta parlando di “odio”. Che cosa è l’“odio”? L’“odio” è la capacita di distruggere e non di uccidere, ma di distruggere cosa? Distruggere la risonanza che le persone della relazione hanno dentro di noi. Mio padre, mia madre, mio fratello, mia sorella, i miei figli, ecc., hanno (perché così veniamo formati, perché sono valore di uso, valore di scambio e valore di desiderio) dentro di me una risonanza, risuonano fortemente dentro di me, ne sono fortemente condizionato. Odiare, quindi, non vuol dire uccidere le persone, non vuol dire far del male, vuol dire semplicemente spegnere, togliere, distruggere la risonanza interiore che hanno queste figure e che mi condiziona.

In questo caso, solo quando ho distrutto la relazione, io non sto più in relazione, ma “sto con…”, “vado con…”. Frasi tipiche: “che deve dire mio padre o mia madre se faccio così?”; oppure: “che deve dire mia moglie se faccio così?”. Una persona è veramente matura quando la smette di farsi queste domande e comincia a chiedersi: “che dirà la mia coscienza se faccio così?” Questa è maturità. È necessario essere autonomi, non autosufficienti, perché nessuno è autosufficiente: per mettere un vetro devo chiamare il vetrinista, per riparare un tubo devo chiamare l’idraulico, ecc. Parlo di autonomia. “Autos” vuol dire “essere legge per sé stessi”, non prendere da altri la propria legge.

“Relazione” vuol dire che l’altro risuona fortemente dentro di me e mi condiziona, ma io non posso permettere a nessuno di risuonare fortemente dentro di me e di condizionarmi, non lo posso permettere, perché ne va della mia autonomia, della mia libertà, della mia maturità, della mia fede. Ecco perché Gesù dice quelle parole: “chi non odia…”.

Gesù dice che bisogna odiare “…perfino la propria vita…”, nel senso che bisogna smetterla con questa eccessiva risonanza della vita dentro di noi.

Ma che cosa è la nostra vita? Siamo nati per caso, alla lotteria dei geni siamo capitati noi: poteva capitare un altro al posto nostro!

Questo è il concetto di relazione, cioè l’impossibilità di definirmi se non attraverso la persona, la cosa, la situazione o l’ambiente a cui sono relato, cioè riferito. Ho bisogno di un riferimento. Ogni tanto si dice: “ho perso il punto di riferimento!”. Dico io, ci voleva tanto per perdere il punto di riferimento? Tu sei il punto di riferimento di te stesso. Non andare a cercare fuori di te il punto di riferimento.

Proprio quando non si sta in relazione, il vivere con gli altri, l’andare con gli altri, è molto più semplice e più leggero, perché fin quando si è preoccupati di sé, dei valori d’uso, dei valori di scambio e de valori di desiderio, allora si è isolati, perché si è fissati di sé, si sta sempre a rimuginare su che valore d’uso mi può dare quello, che valore di scambio mi può dare quell’altro, che valore di desiderio mi può dare quell’altro, ecc. Così ci si mangia il cervello, ci si masturba nel tormento. Quando, invece, ci si sente talmente ricchi da non aver bisogno di valori d’uso, di scambio o di desiderio dagli altri, lo stare con gli altri diventa leggero. Io parlo sempre dal punto di vista affettivo-emotivo, perché dal punto di vista lavorativo è chiaro che abbiamo bisogno degli altri, non sappiamo fare tutto. Dal punto di vista della persona, però, noi siamo completi. quindi che c’è.

Prima e dopo la relazione c’è la “persona”. Che vuol dire “persona”? La parola deriva dal latino “per-sonare”. La “persona” era la maschera che gli antichi attori usavano negli anfiteatri greci e romani: allora non esistevano i microfoni e per permettere a tutti di ascoltare lo spettacolo veniva usata questa grande maschera che si metteva dinanzi al volto, svolgendo la funzione di cassa di risonanza. Il nome latino di questa maschera era “personam”: si chiamava così perché la voce risuonava – “sonam” – attraverso – “per” – questa maschera.

In che senso l’essere umano è “persona”? Che cosa risuona attraverso l’essere umano? Risuona l’Eterno. La persona è l’individuo attraverso il quale risuona l’Eterno, l’Assoluto, attraverso il quale risuonano esigenze eterne, assolute e sono talmente belle e assolute queste esigenze, che io, sciocco essere umano, non potrò mai soddisfarle. Nelle relazioni sentimentali spesso si dice: “io ti farò felice”, “io ti farò contento”; sono solo chiacchiere da megalomani. Bisognerebbe dire: “io posso solo renderti scontento”, “io posso renderti soltanto infelice, per cui stai alla larga da me”. Questa è la verità. State lontani da me perché io vi posso rovinare. Questo è il motivo per cui non mi sono sposato.

La relazione con Dio è l’unica relazione vera e nessun essere umano può soddisfare le esigenze eterne e assolute che risuonano attraverso ognuno di noi. Perciò è inutile mettersi insieme: potete mettervi insieme soltanto per piangervi addosso e per farvi del male reciprocamente, come di fatto, onestamente, fate, a guardarvi bene in faccia!

È questione di quantità: chi più, chi meno, ma stiamo lì, nessuno si faccia grande.

Torniamo alla psicologia. Cosa c’è di scientifico nella psicologia? La scorsa volta qualcuno diceva che nella psicologia c’è tutto l’apporto scientifico che non si può trascurare.

Ho l’impressione che chi mi parla in questo modo non abbia chiaro quale sia la portata, il valore e i limiti del metodo scientifico, soprattutto quando viene applicato alla psicologia. La psicologia ha un oggetto evanescente, che non c’è. L’oggetto della psicologia è la relazione, ma la relazione è così proteiforme, così multipla e molteplice, che sfugge continuamente. Chi la vede da un lato, chi dall’altro. La psiche ognuno la può vedere a modo suo.

Fino a cinque, dieci anni fa si diceva: “mi raccomando, i genitori sono importanti nella formazione dei figli”; ed allora tutti i genitori facevano la corsa a prendersi i libri di pedagogia, di psicologia, di educazione dei bambini, perché volevano essere all’altezza della situazione. Tanto hanno fatto che, a furia di conoscere e leggere tanti libri, hanno rovinati i figli.

Adesso, invece, marcia indietro, non sono più i genitori che formano i figli. Infatti, il titolo di un libro di cui vi parlavo è: “I genitori non hanno colpa”. Di chi è, allora, la responsabilità? È dei coetanei, di quelli che si frequentano; e qui sorge un altro problema, quello di controllare i coetanei. È un problema grosso.

Capite bene che in psicologia si può dire tutto e il contrario di tutto.

Un altro esempio, devo leggervi un brano: “eravamo tutti convinti una volta, ma anche fino a poco tempo fa, che fosse necessario, nei primi anni di vita, dare ai bambini quanti più stimoli possibile, perché la loro mente – questo lo dicono gli psicologi cognitivisti – a quell’età è molto recettiva – e quindi bisogna insistere -: allora lezioni di musica, programmi di movimenti coordinati, corsi di lingua straniera per i bambini da zero a tre anni; gli impegni non finiscono mai. Questa fase della vita è fondamentale per il loro futuro – sostengono da anni schiere di psicologi – e quindi è importante stimolarli il più possibile. Molti genitori si sono adeguati, ma adesso un libro appena uscito dagli Stati Uniti sembrerebbe rimetterebbe tutto in discussione. …L’idea che le esperienze dei primissimi anni di vita siano determinanti per lo sviluppo delle capacità scolastiche e lavorative e nell’abilità nel formare relazioni affettive ha poche basi nel campo della neuroscienza”

Adesso la psicologia, siccome si vuol dare un colorito più scientifico, si appoggia (sapendo di non avere più il suo oggetto, la psiche) moltissimo alla scienza e, nel nostro caso, alla neuroscienza.

“La neuroscienza – dice l’autore, ma bisognerebbe andare a verificare – ha visto che l’idea che i primi anni siano fondamentali non ha un fondamento scientifico – sostiene John Bruer, Presidente della più importante organizzazione mondiale americana per il supporto della ricerca cognitiva in neuroscienza (il titolo del libro è “Il mito dei primi tre anni”, non ancora tradotto in italiano, sta creando non poco scompiglio oltreoceano) nel libro documentato meticolosamente da 209 note. Lo scienziato sostiene che gli studi più aggiornati dimostrano che il cervello rimane plastico e adattabile per tutta la vita, e che gli anni da zero a tre non rappresentano affatto l’occasione irripetibile per esporre il bambino ad esperienze che altrimenti non assimilerebbe – finalmente i bambini si sono liberati dall’ossessione dei genitori. Senz’altro la presenza di stimoli sensoriali influisce sulla crescita, ma soltanto per specifiche funzioni – dalla vista al linguaggio – e per far sì che queste abilità si sviluppino non serve sovraccaricare il bambino di stimoli: quello che il cervello si aspetta di ricevere – gli stimoli – sono presenti in qualsiasi ambiente umano normale, si tratti di un condominio di Manhattan o di una tenda mongola – sostiene Bruer” Quello che dico spesso. Vuoi fare esperienza? Basta uscire dalla porta di casa per fare esperienza! Anzi, non serve neanche uscire di casa, perché prima o poi qualcuno viene a romperti le scatole. Non c’è bisogno di programmare, perché la vita presenta tanti stimoli; quindi, è inutile sovraccaricarsi di stimoli sovradeterminati, sopraggiunti.

Gli oppositori dello scienziato, invece, puntano l’attenzione sulle numerose ricerche che contrastano la sua teoria.

Si può dire – parlo della psicologia scientifica – tutto e il contrario di tutto!

Non parliamo, poi, delle scienze naturali, fisiche, nelle quali si procede per modelli e per ipotesi, in cui non c’è mai la sicurezza al 100% che le cose stiano così.

Ora, in un campo come la psicologia, in cui si arriva a dire tutto e il contrario di tutto, ditemi voi come si fa a parlare di scienza: non c’è un oggetto, non c’è un metodo, non c’è un linguaggio che sia univoco!

Per fortuna ci sono queste altre “voci dal mondo” – per quanto i manuali servano a risolvere le relazioni: “Consigli per uscire dal labirinto dei rapporti finiti”, cioè delle relazioni finite; “Cuore contro cuore”, “L’amore dannoso”, e ce ne sono tanti altri e sono molto simpatici.

Per questo, viste le condizioni in cui si trova la psicologia, avevo pensato di dare le dimissioni dall’albo degli psicologi. Con gli psicologi non voglio avere più niente a che fare e questo lo dico perché voglio che voi non abbiate più niente a che fare con me in quanto psicologo. Non azzardatevi a dirmi che sono psicologo.

Quello che, invece, seguo ancora è la psicoanalisi.

La seguo perché è totalmente diversa dalla psicologia. La psicologia è l’insieme dei racconti dell’“io”. La psicologia viene curata dalla psicoterapia. Quando il racconto non funziona più (il racconto sono le relazioni), allora la psicoterapia ti aggiusta il racconto, te lo rimette in sesto, ti dice più o meno come devi fare, quali saranno le prossime puntate del racconto, come devono andare: tu lo segui e vai bene. Poi, quando si spezza di nuovo la pellicola, devi riattaccare daccapo, ecc.

La psicoanalisi, invece, punta alla distruzione di tutti i racconti dell’“io” e alla distruzione dell’“io” stesso.

La volta scorsa qualcuno mi diceva: “ma anche Freud, che era psicoanalista, aveva le sue storie, i suoi racconti!?”. Io non parlo della psicoanalisi freudiana. Anche quella ha le sue storie, ha tutta una storia fondata sulla dialettica della lotta tra il principio di piacere e il principio di realtà: ora prevale uno, ora prevale l’altro; se prevale il principio di piacere hai lo psicotico, se prevale il principio di realtà hai il nevrotico.

Il guaio della psicoanalisi è che ha tradito il suo impegno, si è psicologizzata.

Il mio modo di intendere e di operare la psicoanalisi è nettamente diverso.