Critica teologica 01 del 10.01.2000

Non si viene qui per risolvere i propri problemi, non ho alcuna ricetta per risolvere i vostri problemi, non è questo il fine di questi corsi. Se voi pensate di venire qui per trovare la chiave per risolvere i vostri problemi vi sbagliate di grosso, vi fate aspettative e attese inutili e anche dannose e avrete alla fine la sensazione di aver perso soltanto tempo.

Cosa s’impara qui? Si viene qui perché si può imparare – e c’è la possibilità di farlo – a non crearsi problemi; quindi, più che imparare a risolvere i vostri problemi, qui si può imparare a non crearsene altri. Questa, dunque, è una scuola di esemplificazione di vita, dell’esistenza: qui si impara a rendere la vita semplice, al punto che uno di problemi non se ne fa più. Questa è la finalità generale dei corsi che facciamo.

I problemi che ci facciamo un po’ tutti quanti, sono problemi dovuti all’ignoranza, ad una conoscenza non decente, non adeguata delle cose così come stanno, perché se imparassimo a vedere le cose così come stanno, problemi non ce ne faremmo. Ecco perché nelle mie discussioni parto sempre da alcune cose che sono innegabili: proprio partendo dalle cose che sono innegabili, possiamo imparare a non farci i problemi. Chi, invece, nega queste cose innegabili, chi ha l’ardire di negare le cose innegabili, cade inevitabilmente in questo vizio ormai consolidato, strutturato, tipico della natura umana, che è quello di cercarsi dei problemi. I Padri della Chiesa che se ne andavano nel deserto, per esempio, eliminavano in blocco tutte le possibilità di farsi e di crearsi dei problemi, non avevano più niente a che fare con nessuno. Andando nel deserto, i Padri della Chiesa avevano a che fare solo con sé stessi. Ma se io ho a che fare con me stesso può nascere un altro problema. Allora cosa devo fare? Devo escludere, togliere, fare fuori me stesso. Così procedevano alla distruzione sistematica degli altri e del proprio “io”, in modo tale da non avere più problemi.

Che cosa rimane a questo punto? Questo è il significato delle parole di Gesù: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). “Odiare” non vuol dire uccidere fisicamente, ma vuol dire impedire all’altro e anche alla mia vita di avere una risonanza dentro di me, impedire, cioè, che diventi una cosa importante. L’altro per me non è importante, il mio “io” per me non è importante, non è importante neanche la mia vita, per cui non riesco più a crearmi dei problemi.

Che cosa rimane quando distruggo l’“io”, gli altri, la mia vita, ecc., quando odio, nel senso che distruggo la risonanza emotiva che hanno queste figure dentro di me? Rimane una limpida e trasparente coscienza. La coscienza non impedisce di compiere, tutt’altro, si compiono opere straordinarie.

Soltanto quando si riesce a odiare sé stessi e chi ci sta attorno – “odiare” nel senso di eliminare la risonanza di queste figure dentro di noi – allora i problemi non ce li creiamo più. Ripeto, qui si insegna come si può fare a non crearsi dei problemi: insegnarlo è facile; metterlo in atto, capisco bene, è molto difficile.

Veniamo al tema di questa sera (critica teologica). La Chiesa si sta creando un sacco di problemi, proprio perché prende seriamente sé stessa e il mondo. Si arriva alla vetta dello Spirito, alla vita di Spirito, quando riusciamo a scrollarci di dosso la responsabilità del mondo. Fino a quando la Chiesa avrà addosso la responsabilità del mondo, non raggiungerà mai la vetta, l’apice, la condizione dello Spirito. Essere spirituali non significa volere le cose invisibili. Non confondete “spirituale” con “invisibile”. Essere spirituale significa scrollarsi di dosso il mondo, scrollarsi di dosso questa responsabilità del mondo.

Purtroppo, questo è oggi il problema della Chiesa, che si va caricando sempre più della responsabilità del mondo, sta sempre più a questo gioco mondano, deve risolvere i problemi del mondo. Il mondo non li sa risolvere e non li potrà mai risolvere, perché vive di posizioni di problemi: se li deve porre continuamente, per poterli risolvere. È un giochetto. E la Chiesa che cerca di stare dietro al mondo per risolvere i suoi problemi!

“Uno spettro si aggira per l’Europa…”. Con questa frase, Karl Marx e Friedrich Engels iniziavano il loro “Manifesto del Partito Comunista”. Lo spettro a cui si riferivano – siamo nel 1800 – era il proletariato. Ora, invece, dico che uno spettro si aggira per tutta l’Europa e per la cultura occidentale: la religione.

Lo spettro è ciò che noi stessi produciamo, è un ectoplasma che esce da noi stessi, è una nostra emanazione, una nostra proiezione, una proiezione così sottile che noi non riusciamo più ad imbrigliare e a governare e che alla fine si ritorce contro di noi. È spettro, perché è qualcosa che alla fine ci perseguita sempre. Questa benedetta religione!

Una decina di giorni fa, in un’intervista rilasciata a “Repubblica”, il Cardinale Ruini, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, affermava che in Europa c’è un sempre crescente pregiudizio religioso. Pregiudizio religioso che ostacola l’azione della Chiesa.

Io penso che questa sua analisi sia un po’ falsata. Dove sta questo pregiudizio religioso in Occidente, in Europa, in Italia? Sono tutti proni come tanti pecoroni a piazza S. Pietro: dov’è il pregiudizio religioso?! Il pregiudizio religioso c’era nel 1800, e nei primi 50 anni del 1900, ma oggi, questo pregiudizio religioso, si va ormai sgretolando.

Che cos’era questo pregiudizio religioso? Era la convinzione che per essere “moderni” bisognava essere anti-religiosi. Il moderno e il religioso – secondo quest’ottica – erano inversamente proporzionali: più moderno sei e meno religioso devi essere, più religioso sei e meno sei moderno. Questo era il pregiudizio anti-religioso.

Ma di che cos’era sostanziato questo pregiudizio anti-religioso? Era sostanziato dall’aspirazione alla razionalità della Storia. L’uomo moderno, infatti, era colui che portava avanti un progetto di illuminazione del Tutto, e quindi la Storia era razionale, razionalissima. Anche i cristiani, prima, dicevano che la Storia era razionale, perché guidata dal progetto di Dio, dalla Provvidenza.

Il pensiero ateo moderno, laicista, ha tolto a Dio questa prerogativa. Domanda: “Ma se si afferma che Dio non c’è, chi si farà garante della razionalità della Storia?”. “L’uomo – è la risposta del pensiero ateo moderno -, l’uomo deve farsi garante, perché è impossibile che la Storia sia irrazionale: se la Storia fosse irrazionale tutta la realtà sarebbe irrazionale; ma se tutto è irrazionale io non resisto, mi ammazzo, perché non lo sopporto, non riesco ad accettarlo”. Insomma, il pensiero ateo lo deve pur trovare un filo a cui appigliarsi e, dal momento che non lo può trovare nella Provvidenza di Dio, lo trova nella provvidenza dell’uomo. E allora, quegli attributi che prima erano di Dio, devono diventare attributi dell’uomo; quella responsabilità che prima era di Dio – di essere garante della razionalità della Storia – deve passare all’uomo: l’uomo si fa garante della razionalità della Storia, questo è il nucleo della modernità, del moderno. Quando dico “moderno” non mi riferisco a ciò che si intende solitamente, ma al “moderno” in senso storico. La modernità inizia nel XV-XVI secolo circa.

I cristiani affermano che tutto è un disegno di Dio, tutto è Provvidenza; soltanto non si riesce a capire quali siano le strade della Provvidenza: i disegni di Dio sono sì provvedenti, ma sono misteriosi, non riusciamo a capirli e questo fa arrabbiare i moderni. Per cui i moderni aspirano ad una razionalità della Storia, si fanno garanti della razionalità della Storia e proprio per questo la possono controllare e dirigere.

Razionalità, controllo, e direzione della Storia: questo è il moderno. Questa è la parte propositiva del pregiudizio anti-religioso.

Basta con la Chiesa, con i misteri, con i preti, con le cose che non si capiscono, con una visione della storia di tipo provvidenziale: questo è il moderno. È chiaro che tutto ciò si scontrava con l’impostazione religiosa.

Questa era la visione fino a tutto il 1800 e ai primi anni del 1900 e sia nel pensiero laico di stampo liberale, hegeliano, kantiano, sia nel positivismo, per arrivare poi a Croce, Gentile, Einaudi, come anche nel versante marxista, c’era la convinzione che la Storia fosse razionale. Tutta la battaglia che Marx ha fatto contro l’economia classica era questa: secondo gli economisti classici bisognava lasciar fare e lasciar passare (“laissez faire, laissez passaire”), in quanto c’era in loro la convinzione che le cose, alla fine, si sarebbero aggiustate automaticamente. C’è quasi una “mano invisibile” – dicevano – che alla fine aggiusta tutto. Ma Marx diceva che questo era impossibile: è l’uomo che deve intervenire con la sua razionalità.

Quindi, anche se su fronti opposti, sia il marxismo sia il liberismo e il pensiero laico in genere avevano questa aspirazione alla razionalità della Storia e l’ambizione di controllare e dirigere il processo e il percorso storico.

Questo dunque è il pregiudizio moderno; il concetto di moderno in chiave propositiva. Sennonché, voi capite bene che c’è stato un fallimento su tutti i campi di questo pensiero moderno, un fallimento totale, completo.

Ecco perché Ruini non ha fatto un’analisi attenta: ha scambiato il pregiudizio anti-religioso con il fatto che in Italia si vuole dare il riconoscimento di “famiglia” alle coppie di omosessuali, o per la questione dell’aborto, ecc. Identifica un po’ l’anti-religioso con questi principi, che non collimano con la morale cristiana. Non è questo il concetto di anti-religioso.

Il pregiudizio anti-religioso si va disgregando sempre più e sta creando una sensibilità collettiva, un senso comune che si esprime nei film, nei libri di maggiore successo, nelle discussioni che si fanno. Perché? Perché questa aspirazione, questa ambizione alla razionalità della Storia è stata sconfessata giorno dopo giorno; quest’aspirazione a dirigere, a controllare i processi storici viene sconfessata giorno dopo giorno. Il tentativo di creare sulla Terra la Gerusalemme Celeste, di far scendere il Paradiso sulla Terra, di formare il regno di Dio in Terra è fallito: questi poveri laici, laicisti tremuli, non più convinti, né tantomeno convincenti, vanno in cerca di valori.

Questi benedetti valori: i valori confortanti, i valori nuovi, i nuovi punti di riferimento. È a questo punto che il pensiero laico, marxista, che ormai è in declino, si incontra con la Chiesa. Incontra dei vescovi dispensatori di valori confortanti. Questo è proprio il rischio della Chiesa di oggi.

Questo pensiero laicista, laico, agnostico – non dico ateo perché è una parola troppo grossa e ce ne vuole per essere atei (vi parlerò dell’ateismo impossibile nei prossimi incontri) – è un fatto di debolezza mentale.

Io ho un collega medico che non è credente, ma è superstizioso, cioè fa continua professione, ostentazione di ateismo e poi mi dice che è superstizioso: è chiaro che è un fatto di agnosticismo, non tanto un fatto di ateismo convinto. Si tratta di una debolezza mentale. Aveva ragione G. K. Chesterton, un grande letterato inglese convertito al cattolicesimo, il quale diceva che quando un uomo smette di credere in Dio, non è che non crede a niente, comincia a credere a tutto.

Ora – ripeto – molti nostri esponenti, alti esponenti del pensiero laico – pensiamo a Eugenio Scalfari, ma anche tanti altri – vedono nella Chiesa il rifugio, la religione come rifugio, la Chiesa come conforto per queste anime tremule, sperdute. Voglio leggervi un breve trafiletto – questo fa parte della mia rubrica “voci dal mondo”, così come la chiamo – preso dal “Corriere della Sera”: “Politici in fila per apprezzare il pontefice”. C’è scritto: “…c’era una volta il Tevere a separare, a Roma, i palazzi politici dalla città del Vaticano. Oggi l’evento del Giubileo sembra aver cancellato quel confine simbolico tra Chiesa e Stato: da Carlo Azeglio Ciampi a Giuliano Amato e poi in ultimo Lamberto Dini, sono in tanti a cantare le lodi del Papa polacco, già tutti in processione da Sua Santità”.

Questo è un pensiero di Ernesto Galli della Loggia – cito le sue parole e questa è una persona che pensa molto: “…non c’è dubbio che ad una Chiesa del genere molti poteri forti, italiani, sono pronti a fare ponti di oro, così come l’intero sistema dell’immagine e della comunicazione”; sull’“Espresso” il filosofo Gianni Vattimo aggiungeva: “L’idea che il Quirinale e il Vaticano si guardino sopra i tetti di Roma come poteri  – e noi stiamo sotto, non capiamo niente, mentre loro, come poteri, comunicano – giustamente e laicamente separati, rischia di apparire una pia illusione”.

A dare ascolto a Giuliano Amato: “…il pontefice è più coraggioso dei nostri governanti, perché ha capito che occorre fare i conti con le diversità”. Questa è la cosa più importante del pontificato di Giovanni Paolo II, fare i conti con le diversità!?! “…e sulla scia di incenso sparso dal Ministero del Tesoro, si fa largo Lamberto Dini: la Chiesa sembra rappresentare la custode della libertà e della giustizia sociale, mentre i politici si preoccupano del potere”; cioè, tu occupati di questo, che noi facciamo quest’altro. “Sono molto preoccupato – dice lo scrittore cattolico Vittorio Messori, un’altra persona che riflette – per questo clericalismo agnostico, che pur di avere qualche simpatia in più non esita a parlar bene dei preti e del Papa per apparire politicamente corretti”.

Continua Galli della Loggia: “Il fenomeno non riguarda solo i politici: il Governatore della Banca d’Italia, Fazio, presenta la sua enciclica politico-economica alla “Settimana Sociale dei cattolici italiani”. Si apre l’Anno Santo: il segretario generale dell’ONU, Annan, si affida alle parole del Papa: “la politica delle Nazioni non può ignorare la dimensione spirituale dell’esperienza umana”. Giù il cappello, insomma, davanti a Woityla che alla maniera di un suo predecessore, Pio VII, potrebbe osservare: “amico mio, levati il cappello, perché io possa darti la benedizione: la benedizione di un vecchio non ha mai fatto male a nessuno””.

Questo è l’atteggiamento che si ritrova continuamente e che pone la Chiesa in una situazione piuttosto difficile, preoccupante, perché questo benedetto pensiero laico, agnostico, scambia il pensiero sociologico con il pensiero teologico e la Chiesa ha un tallone di Achille, un punto debole a tal proposito, infatti la Chiesa scambia spesso – parlo di teologi – l’incarnazione con la socializzazione: “il Verbo si è fatto carne” lo traducono con “Dio si è socializzato”. Questa è una bestialità, una bestemmia.

Dio si è fatto carne per rivelare la struttura profonda dell’essere umano, che è carne, che è naufragio; invece questa teologia interpreta l’incarnazione come una socializzazione: Dio si fa socialità. Questo è scambiare il pensiero sociologico con il pensiero teologico, ma a questo il pensiero cattolico dà spazio, dà adito, perché spesso si è comportato in questo modo e si comporta ancora.

Insomma, è un rischio per una Chiesa che non sia convinta della centralità della trascendenza di Dio. È un rischio come lo fu negli anni ‘70. In quegli anni la Chiesa diventò una specie di articolazione del dissenso politico e sociale: nacque la teologia della liberazione, che è una rilettura del Cristianesimo in chiave puramente marxista e quindi falsa, perché il Cristianesimo non ha queste categorie. Adesso, nel 2000, il rischio non è che la Chiesa diventi un’articolazione, un’espressione del disagio e della protesta politico-sociale, infatti sta diventando una cosa ancora più brutta, cioè un’agenzia di una generica moralità, una dispensatrice di valori confortevoli, una specie di pronto soccorso caritatevole, una accreditatrice di volontari e di volontarie fatti perbene. Questo è il rischio che la Chiesa corre.

Ma perché mai incensano questi politici? Perché leggono tutto il pensiero teologico semplicemente in chiave sociologica. Cos’è questo tallone di Achille, questo punto debole che c’è nel pensiero della Chiesa? Perché non sono stupidi questi politici che dialogano dai tetti al di sopra delle teste nostre?

Questo perché nella Chiesa è avvenuta, purtroppo, ed è un fatto preoccupante, quella che si chiama la “svolta antropologica della teologia”. Parole difficili. La “svolta antropologica della teologia” risale al post-Concilio Vaticano II. Già c’era qualcosa in giro, ma dopo il Concilio Vaticano II tutti questi filoni di svolta antropologica si sono coagulati e hanno formato un pensiero molto forte e molto denso.

Che cos’è questa “svolta antropologica della teologia”?

Un filosofo francese, Jacques Maritain, scrisse un libro, “L’umanesimo integrale”, in cui poneva l’accento sull’uomo: questo partire dalle esigenze dell’uomo non ha fatto altro che ridisegnare un Dio, ridisegnare una teologia che fosse soltanto in funzione dell’uomo. Se voi grattate tutte le teologie che oggi stanno in circolazione, che cosa ci trovate? Ci trovate l’antropologia, ci trovate la psicologia, ci trovate i bisogni dell’uomo, i bisogni dell’essere umano proiettati all’infinito. Ecco perché aveva ragione un grande ateo del 1800, Feuerbach, il quale, nell’opera “Essenza del Cristianesimo”, affermava che è l’uomo a farsi un Dio a sua immagine e somiglianza e non il contrario. È l’uomo che si fa il Dio così come gli fa comodo. Ed anche Marx diceva che: “la religione è l’oppio dei popoli”. E aggiungeva: “è il sospiro di un’anima in un mondo senz’anima”. Che fa un uomo senz’anima? Si costruisce la divinità.

Quando Freud parla della religione, la chiama “nevrosi universalizzata”. Perché? Perché è una proiezione dell’essere umano, dipendente, infantile, che si crea quest’immagine del Padre per essere preso per mano. “Prendimi per mano mio Dio, guidami nel mondo a modo tuo…”: queste sono le canzoni sceme che si cantano oggi in chiesa. In chiesa, oggi, si cantano i problemi dell’uomo.

Mentre tutta la teologia, la filosofia, prima della svolta antropologica, aveva come oggetto non l’uomo, ma l’essere, l’essere in tutte le forme in cui poteva presentarsi. Ed era necessario che l’uomo uscisse da sé per andare incontro all’essere; era necessario che l’uomo si decentrasse per trovare l’essere.

Mentre adesso al posto della teologia abbiamo le scienze religiose; al posto della filosofia abbiamo le scienze della natura, le scienze umane, perché tutto deve partire dall’uomo. E meno male che Gesù dice a S. Pietro: “Lungi da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33); pensare secondo gli uomini e pensare secondo Dio sono due cose diverse, opposte, e il cristiano è colui che esce dal modo di ragionare umano per accedere al modo di ragionare divino.

Guardate, sono arrivati fino al punto, anche nelle scienze, nella fisica, di inventare quello che si chiama “il principio antropico”; era la cosa più bella che potevano fare!?! Che cos’è il “principio antropico”? La convinzione che tutto l’universo sia stato creato in riferimento all’uomo, perché l’uomo potesse apparire. La centralità dell’uomo come fine dell’universo: tutto si spiega nell’universo perché c’è l’uomo. Per fortuna la fisica che abbiamo adesso ha preso “il principio antropico” e l’ha gettato nella spazzatura. Ormai la fisica di oggi accede ad orizzonti più metafisici, dell’essere, dell’unità, dell’insieme, dinanzi ai quali le nostre fesserie risultano veramente come tali.

La Chiesa ha fatto propria questa “svolta antropologica”, per cui Dio è una proiezione dei nostri bisogni. Avevano ragione quelli che accusavano le religioni di essere false e illusorie, proprio perché erano soltanto proiezioni. Feuerbach diceva che era giusto che avvenisse così, perché soltanto attraverso queste proiezioni dei bisogni dell’uomo nel divino, l’uomo ha potuto migliorare e tendere all’infinito.

Sapete come Feuerbach caratterizza questa “svolta antropologica”? In quella famosa espressione di S. Giovanni “Dio è amore”, “Dio” è soggetto, “è” copula, “amore” è una qualità di Dio, una qualità essenziale, diciamo – poi vedremo se è vero. Allora cosa vuol dire “svolta antropologica”? Che l’amore, invece di essere predicato nominale, diviene soggetto, e Dio, invece di essere soggetto, diventa predicato nominale: “l’amore è divino”. Che cos’è l’amore? Il legame con tutti quanti. Quando noi ci amiamo allora siamo Dio, siamo divini. Così abbiamo trasformato la teologia – “Dio è amore” – in antropologia, in sociologia – “L’amore è divino”. Quando ci amiamo siamo divini. Questa è la base della svolta antropologica.

E allora Dio che cos’è? È un nome, è un personaggio: non è Dio che ha creato noi ma noi lo creiamo per poterci servire di lui, lo rendiamo funzionale a noi, perché diventi strumentale all’umanità.

“Voci dal mondo”: “Il necrologio di Dio, – è sulla Stampa di oggi – l’Economist eguaglia il creatore. Vi è una pagina nella corposa edizione speciale dell’”Economist” che risveglia bruscamente l’attenzione, oltre alle chiacchiere dette sul millennio…. Questa è una pagina che ogni settimana offre un lungo necrologio: chi è infatti il celebre defunto scelto dall’Economist per questo numero d’eccezione? È God. Dio. A differenza di Nietzsche l’”Economist” non proclama “Dio è morto”, ma, anche se per vie diverse, la sua tesi giunge alle medesime conclusioni. Cosa dice l’“Economist”? Questo è un riassunto: “I guai dell’onnipotente sono di vecchia data, risalgono – cogliete il tono ironico – più o meno all’avvento di Allah. Come tante illustri personalità – afferma l’“Economist” – Dio aveva infiniti ammiratori che si detestavano a vicenda. Chi Allah, chi Geova, chi quell’altro – però tutti quanti uno contro l’altro e lui lasciò fare. Ad alcuni dettò la Bibbia, a Maometto il Corano, si occupò della dieta degli Ebrei e permise agli Indù di dipingerlo di blu; poi, altro gravissimo errore, tollerò di essere nazionalizzato: “Dio è dalla nostra parte” – gli inglesi dissero ai francesi -, ma Giovanna D’Arco ribatté: “no, è con noi”; e così attraverso i secoli. Insomma, è stato il Dio di troppa gente, troppe sette, troppe cause”. L’articolo dell’“Economist” conclude ricordando che comunque nel mondo cristiano è soltanto una minoranza a negare la possibilità di un essere supremo e nelle società musulmane ed ebraiche la fede è totale. “La prova si avrà il giorno del giudizio quando l’uomo incontrerà il suo creatore, o sarà Dio ad incontrare il proprio creatore, cioè l’uomo?”. Con questo quesito finisce il necrologio, un quesito che ripropone una classica tesi atea, che vede nella divinità una creazione umana e non viceversa. Le S.S., sulla fibbia della cintura, portavano scritto: “God mit uns”, che significa “Dio con noi”. Questa è la Storia. La Storia è etnicizzare Dio, farlo diventare etnico, nazionale, gruppale, cioè funzionale al gruppo, funzionale alle nazioni, funzionale alle etnie. Questo è il modo in cui il pensiero laicista vuole usare Dio. Questa è religione, è uso degli attributi di Dio.

Ecco perché insisto nel dire che l’idea di Dio è materiale, è immediata, perché tutte queste funzionalizzazioni, nazionalizzazioni di Dio, si basano sulla teoria della psicogenesi dell’idea di Dio, cioè sulla convinzione che sia la psiche a generare l’idea di Dio. Come giustificano questa teoria? Dicendo che l’idea di Dio nasce o perché l’uomo soffre e ha bisogno di Dio, o perché l’uomo è forte e ha bisogno di Dio, o perché l’uomo è mezzo forte e mezzo debole e ha bisogno di Dio!?! Questa è la psicogenesi di Dio. Un Dio buono per tutte le stagioni.

Io, invece, sostengo che l’idea di Dio è materiale. Per “materiale” intendo un qualcosa di primitivo, originario, che non ha alcuna psicogenesi possibile e che, proprio per questo, non può essere nazionalizzata, socializzata, etnicizzata, pretizzata, clericizzata, ecclesizzata. La parola “materia” non sta ad indicare ciò che si tocca, si vede, si sente; questa è la sensibilità. Per materiale si intende ciò che è immediato, originario, cioè che non deriva da altro, che sta lì, ciò con cui, prima o poi, devi fare i conti e che non puoi manipolare come vuoi tu. Questo è il concetto di materiale.

L’idea di Dio è materiale, non deriva da nient’altro: è soltanto la nostra volontà di interpretazione che prende questo Dio e lo porta da una parte all’altra, ma questo è contro l’idea stessa di Dio che è un’idea materiale, non si può toccare, è un muro contro il quale ti devi scontrare.

I prossimi incontri verteranno proprio sullo studio, sull’analisi delle psicogenesi di Dio, sulla valutazione di queste teorie; capiremo che queste psicogenesi non raggiungono il fine di dimostrarsi vere e se le psicogenesi di Dio sono false, vuol dire che l’idea di Dio è materiale, è immediata, ineludibile e con questa dobbiamo fare i conti. Coglieremo la falsità di tutte le psicogenesi, perché risulti ancora più chiara l’immediatezza, la materialità e la non-disponibilità dell’idea di Dio. Se il pensiero teologico, invece di prestarsi a queste funzionalizzazioni di Dio, tornasse a questa valutazione materiale dell’idea di Dio, farebbe molto, molto meglio.