Critica teologica 03 del 03.04.2000

La distinzione che vi feci tra ateismo teorico e ateismo pratico porta ad individuare una differenza tra l’agnostico e l’ateo ed in particolare tra l’“agnostico teorico” e l’“agnostico pratico” e tra l’“ateo teorico” e l’“ateo pratico”. Si distinguono, quindi, quattro figure diverse che, per dirla alla latina, “toto cielo differunt”, cioè sono completamente differenti.

La parola “agnostico” deriva dal greco ed è composta da “a”, che ha funzione privativa, e “gnostico”, da “noesis”, che vuol dire “conoscenza”; la parola “agnostico” indica colui che non ha conoscenza. Si può avere non conoscenza secondo due modalità: 1) agnostico nel senso che uno riconosce i limiti della propria mente e ammette: “io non posso conoscere ciò che va al di là dei limiti della mia mente”; questo è l’“agnostico teorico”; 2) l’“agnostico pratico” è colui che non si pone nemmeno il problema del conoscere, non ha nemmeno la coscienza del problema della conoscenza. Mentre l’agnostico teorico si pone il problema della conoscenza, quindi ha coscienza della conoscenza come problema, l’agnostico pratico non ha coscienza della conoscenza come problema, cioè non si pone nemmeno il problema.

Quindi sono due figure diverse. L’agnostico teorico è colui che dopo aver cercato in tutti i modi di conoscere un certo oggetto, alla fine dice: “io, circa quest’oggetto, non posso avere conoscenza, perché va al di là delle possibilità della mia mente e siccome va al di là delle possibilità della mia mente mi fermo in una posizione agnostica, cioè di non conoscenza”. Tuttavia, la coscienza di questa conoscenza come problema e dell’impossibilità di risolvere questa conoscenza è presente nell’agnostico teorico ed è proprio questa coscienza che lo rende inquieto. Infatti, l’agnostico teorico è una persona inquieta, perché sa che la conoscenza di qualcosa si pone come problema, ma sa pure di non riuscire a risolvere questo problema della conoscenza. Quindi – si dice – è un uomo “problematico”. L’agnostico teorico è una persona problematica. L’agnostico pratico, invece, è colui che, praticamente, vive senza avere la coscienza del problema della conoscenza, che non è risolubile, risolvibile.

Ora, riguardo al nostro tema, ossia Dio, c’è un “agnosticismo teorico” e un “agnosticismo pratico”.

L’agnosticismo teorico è quello di tutti quei pensatori i quali hanno messo a tema questo problema e hanno cercato di risolverlo, hanno cercato di porsi il problema della conoscenza dell’oggetto-Dio e alla fine si sono convinti che quest’oggetto è al di là delle possibilità, dei limiti della propria mente, perciò è un problema irrisolvibile.

L’agnosticismo pratico, invece, è di quei pensatori che il problema di Dio, della esistenza o della non esistenza di Dio, non se lo pongono nemmeno, cioè non hanno nemmeno la coscienza del problema di questo tipo di conoscenza. L’agnostico pratico puro è colui che non si pone nemmeno il problema di Dio: vive e basta. Nell’agnostico pratico puro non dovrebbe esserci nemmeno una piccolissima categoria mentale che lo possa far pensare o parlare di Dio. Quello di Dio è un problema che non si pone: non perché non se lo voglia porre, ma perché non ha nemmeno la capacità di porselo.

Quanti sono gli agnostici teorici? Sono pochi, perché per diventare agnostico teorico bisogna avere una grande intelligenza. Per essere agnostico teorico bisogna aver avuto la pazienza di ripercorrere tutti i cammini che le grandi menti hanno messo in atto per risolvere questo problema della conoscenza di Dio. Per essere agnostici teorici ci vuole una grande coscienza, una grande moralità: l’agnostico teorico è colui che non dice “Dio non c’è”, ma nemmeno dice “Dio c’è”, perché è un problema che va al di là dei limiti della mia mente.

Ma anche l’agnostico pratico merita grandissimo rispetto. Merita rispetto perché occupa una posizione dalla quale non fa male a nessuno e a me non toglie e non aggiunge niente. In realtà, nel caso dell’agnostico pratico, non si può parlare proprio di una “posizione”, perché se quella dell’agnosticismo pratico fosse una posizione del tipo: “io intendo essere un agnostico pratico”, significherebbe l’aver posto una posizione per rispondere ad una domanda che ci si è fatti. Quindi, se l’agnostico pratico dice: “io voglio vivere come se Dio non ci fosse”, non appena afferma questo mostra di avere una coscienza del problema-Dio, che non vuole risolvere. L’agnostico pratico puro non è quello che dice: “io voglio essere agnostico pratico nei confronti di Dio”, perché se lo dicesse non sarebbe più un agnostico pratico, dal momento che mostrerebbe di avere il concetto di Dio e se avesse il concetto di Dio non potrebbe essere più agnostico pratico, diventerebbe un agnostico teorico, perché la sua è una posizione e le posizioni comportano un giudizio, un’affermazione. Quando si esprime un giudizio del tipo “io voglio vivere come se Dio non esistesse e non voglio nemmeno conoscerlo”, quel giudizio si oppone ad un altro giudizio, del tipo “Dio può essere conosciuto”. Ogni posizione si rifà sempre alla posizione opposta e contraria. Quindi l’agnostico pratico puro è colui che vive il suo agnosticismo pratico in maniera immediata e non come una posizione, poiché non appena si assume una posizione, ci si è già posti il problema di Dio, si è già incastrati. Dicevano i francesi: “per porsi bisogna opporsi”.

È evidente che quella dell’agnostico pratico puro è una tipologia un po’ difficile. La maggior parte sono agnostici pratici impuri, i quali mettono come posizione quella di essere agnostici. Una piccola parte è fatta di agnostici teorici, perché l’agnostico teorico deve aver potuto attraversare tutta la problematica della teodicea, dell’esistenza di Dio, dal primo filosofo fino all’ultimo, per poi aver sviscerato per conto proprio il problema: lavoro, questo, che richiede molto, molto tempo e che quindi non è alla portata di tutti. Per questo, quando qualcuno viene da me e mi fa professione di agnosticismo e di ateismo, gli chiedo: “ma quanto tempo ci hai pensato, quante ore ci hai dedicato?”. Mi accorgo che dietro certe affermazioni di agnosticismo e di ateismo ci sono dei problemi personali, problemi molto umani, che posso capire, ma sui quali non si può discutere sul piano teorico, perché se dovessi discuterne sul piano teorico dovrei fare astrazione, dovrei allontanarmi dai problemi della persona che mi sta di fronte, problemi che lo fanno parlare e pensare in un modo o nell’altro.

È difficile parlare di Dio e dell’esistenza di Dio in maniera spassionata e sviscerata, evitando che i problemi personali influiscano sulla discussione.

Passiamo ora alle altre due figure citate prima: l’ateo teorico e l’ateo pratico.

L’ateo teorico è colui che dopo una lunga diatriba, dopo un approfondimento lunghissimo, intensissimo ed estesissimo sulla tematica dell’esistenza di Dio, si è convinto, in maniera intelligente, che Dio non c’è. Questo dunque è l’ateo teorico.

L’ateo pratico, invece – da non confondere con l’agnostico puro, poiché sono due figure confondibili -, è colui che vive e si comporta “tamquam Deus non esset”, “come se Dio non ci fosse”. Diversamente dall’ateo teorico, l’ateo pratico si è convinto, con la sua intelligenza, che Dio c’è, ma il suo modo di vivere appare strano, perché in tutto quello che fa e che dice sembra che si comporti come se Dio non ci fosse. Questo non perché neghi l’esistenza di Dio, della quale è convintissimo, ma perché non vuole usare Dio, non vuol tirare Dio nelle sue piccole e smorte e miserabili vicende umane, non sfrutta gli attributi di Dio a suo uso e consumo. Pensate un po’ che i primi cristiani venivano chiamati “atei” dai pagani! I pagani osservando i primi cristiani dicevano che quelli erano atei, poiché nel loro modo di vivere non c’era un continuo ricorrere a Dio, uno sfruttare continuamente Dio e i suoi attributi.

È questo che intendo dire con l’espressione: “io sono un prete ateo”; non ateo teorico, ma ateo pratico, ossia vivo e mi comporto senza ricorrere continuamente a Dio per risolvere i miei problemi, perché Dio mi ha dato l’intelligenza, mi ha dato delle capacità e le cose le devo vedere da me.

Fatte queste premesse vi informo che il discorso sull’esistenza di Dio che intendo fare sarà nei confronti non dell’ateo pratico, come il cristiano dovrebbe essere, né dell’agnostico pratico puro. Il mio discorso riguarda l’agnostico teorico e l’ateo teorico.

Per quanto riguarda me, francamente vi dico che sarei più contento se Dio non ci fosse, sarei più contento se non ci fosse niente al di là di questa vita, sarei più contento se non dovessi rendere conto a Dio. Non sento per niente il bisogno di questo Dio. Lo avverto come un limite per me, almeno inizialmente, salvo avvertirlo in altra maniera. Non ho alcuna esigenza che lui mi possa, mi voglia, o mi debba soddisfare: se potessi fare a meno di Lui, onestamente, ne farei a meno. Magari tutto finisse con l’ultimo respiro! Trovo che tutto quello che si fa e si vive, è puro non-senso. Non ho bisogno di Dio per dare un senso a quello che faccio, perché so che neanche Lui riuscirebbe a dargliene. Se qualcosa non ha senso, neanche Dio può dargli senso. So di esser nato per un puro caso.

C’è una cosa che mi fa andare in bestia, quando qualcuno viene da me e mi dice: “io non so quale sia il disegno di Dio su di me”. Ed io rispondo: “tu sei scemo, perché Dio non ha proprio nessun piano su di te! L’unico destino è che tu viva dinanzi a Dio in maniera dignitosa, in maniera cristiana, che tu affronti le tre necessità, le tre verità indubitabili ossia Dio, la Morte e il Sesso (cioè il fatto che ognuno di noi confina sempre con la sua pelle, con la sua individualità, l’essere “persona”). Queste sono le tre uniche verità, il resto fluttua.

Come posso esser sicuro che l’altro mi voglia bene o no, che l’altro mi segua o no. In un Vangelo c’è scritto: “Gesù però non si confidava con loro…egli infatti sapeva quello che c’è in ogni uomo” (Gv 2,24-25).

Che i giusti e la giustizia vincano sempre è una favola, che il mondo vada verso la pace è un’illusione, camomilla! Le uniche tre verità sono quelle indubitabili, le sperimentiamo giorno per giorno e sono: 1) che mi sento limitato. Limitato da chi? Mi sento limitato dall’Illimitato, dall’Assoluto, è ovvio. Se c’è un limite, se sono limitato è l’Illimitato che mi limita. 2) Qual è questo limite? È la morte. 3) La terza verità è che io confino da sempre con me stesso e per quanto mi sforzi di agganciarmi ad altro, di gettare ponti, alla fine mi accorgo di essere sempre e solo me stesso. In filosofia questo si chiama “principio di identità”: ogni cosa è identica a sé stessa e non può essere altro da sé.

Queste tre verità mi guidano, questo è il destino. Stando di fronte all’Assoluto non c’è altro da dire. Come vedete è povera la mia filosofia, è essenziale, perché ruota attorno a queste tre verità indubitabili, indiscutibili.

Cosa dico, dunque, all’agnostico teorico e all’ateo teorico? Ormai io ho messo in funzione l’intelligenza da anni ed è da anni che studio e in tutti questi anni mi sono convinto che è impossibile negare l’evidenza dell’Illimitato e dell’Assoluto. Perciò dico al fratello ateo teorico e al fratello agnostico teorico: perché, dal momento che negate l’esistenza di Dio, una volta tanto non provate voi a portare le prove della vostra tesi, piuttosto che pretendere da me le prove della Sua esistenza? Perché se le prove della non esistenza di Dio che mi date sono sballate, devo concludere che Dio c’è. Francamente mi sono scocciato di dover dare ogni volta le prove e la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Se un ateo o un agnostico teorico vengono da me dicendomi che Dio non esiste, perché dovrei essere io a dargli le prove della falsità di tale affermazione: mi dimostrino loro che è vera! Se alla fine risultasse l’impossibilità di provare la non esistenza di Dio, questa impossibilità mi spiegherebbe la sua esistenza.

È difficile ammettere che Dio non c’è, perché se Dio non ci fosse non ne parleremmo. L’ateo teorico puro non esiste, perché sarebbe colui che non ha nemmeno il concetto, l’idea di Dio. Ma se non si ha il concetto di Dio, come si fa a negarlo? Per negare qualcosa devi averne il concetto: se non hai il concetto della cosa che vuoi negare, cosa neghi? Non solo: per negare Dio, l’ateo (“ateo” vuol dire “senza Dio”) deve avere il concetto di Dio e deve averlo nella maniera più perfetta, nella maniera metafisica più completa, nella forma più splendida. L’ateo teorico non può riferirsi al concetto di Dio che ha la vecchietta o il bambino (il Dio bambino, il Dio con la barba, ecc.). Diceva Marx: “ogni fenomeno sociale va studiato là dove si produce nella forma più perfetta”. In particolare, Marx si riferiva al Capitalismo che, secondo lui, andava studiato in Inghilterra, cioè dove assumeva la forma più perfetta (Marx, però, cadeva in contraddizione quando affermava che ogni fenomeno è sempre determinato storicamente, ma questo è un altro discorso). Ora, se Marx fosse stato un disonesto avrebbe studiato il Capitalismo in un posto in cui si manifestava in una forma mista. Come posso, quindi, criticare il concetto di Dio che può avere un bambino o una vecchietta, il quale bambino o la quale vecchietta hanno quel concetto perché gli sono state raccontate certe cose. Per questo dico sempre alle catechiste di non spiegare il catechismo partendo dalla Creazione, perché sono cose molto difficili e complesse, sono racconti mitologici. Parlate piuttosto di Gesù, che è un personaggio storico.

Il fatto stesso di avere l’idea di Dio, di Assoluto, mi informa sulla non contraddittorietà di tale idea, perché l’intelligenza non può pensare nulla che sia contraddittorio. Sarebbe il suicidio dell’intelligenza pensare qualcosa di contraddittorio. L’intelligenza, o il pensiero, pensa sempre ciò che non è contraddittorio. La mente pensa ciò che è vero, ciò che si presenta come tale, come logico. Quindi, se questo concetto di Dio è pensato, è pensato perché è perfettamente logico. Stiamo parlando del concetto di Dio: che poi Dio esista o meno è un altro discorso. Percepire la necessità del concetto di Assoluto è una questione di “logica” (che riguarda i concetti); l’esistenza o la non esistenza di questo Assoluto è una questione “ontologica” (che riguarda l’“essere”).

Se dunque il concetto di Assoluto è logico, è possibile che esista? Si: se è logico chi può escludere che possa esistere. Non esiste soltanto ciò che è contraddittorio, ma ciò che non è contraddittorio, ciò che non si contraddice, non è detto che esista, ma può esistere. E chi arriva a dire che Dio può esistere? L’agnostico teorico, colui il quale non dice che Dio non c’è, ma neanche che Dio c’è: dice solo che Dio è possibile. A questo punto l’ateo si vede incalzato e deve darmi la prova che non è possibile che Dio esista.

Qual è, allora, la soluzione – secondo lui – vincente? Il cavallo di battaglia dell’ateismo teorico è la cosiddetta “psicogenesi del concetto di Dio”, cioè il tentativo di spiegare l’idea di Dio come un frutto, una creazione, una “genesi” della nostra psiche. Dunque, l’ateismo teorico cerca di dimostrare che l’idea di Dio non è altro che una produzione che parte dai bisogni umani più profondi. In parte l’ateo psicogenetista ha ragione, perché molte immagini di Dio sono pura invenzione dell’essere umano, infatti noi, molto spesso, ci facciamo un Dio a nostra immagine e somiglianza.

In realtà ci sono due modi di intendere questa psicogenesi: 1) Modalità feuerbachiana. Il filosofo Feuerbach ammetteva che l’idea del divino è un’idea positiva, un’idea che ha avuto grande importanza nella storia dell’umanità, perché ha permesso all’uomo di pensare cose grandi ed eccezionali. Una civiltà senza religione, senza la fase religiosa, è una civiltà, una cultura piccola, meschina, perché soltanto la religione permette all’uomo di creare, di inventare, di pensare qualcosa di grande e di eccezionale. Come avviene questo processo? In una prima fase l’uomo non fa altro che prendere le sue qualità infinite, assolute, divine, delle quali non ha coscienza, e proiettarle in un essere superiore. Questa prima fase – sostiene Feuerbach – è una fase necessaria, ma ancora più importante è la seconda fase, in cui l’uomo deve riprendersi da Dio ciò che in Dio ha proiettato e che è suo. L’uomo si è alienato in Dio, cioè ha preso il meglio di sé, la sua stoffa divina e l’ha messa dentro Dio, ma ora deve attuare il processo opposto, ossia deve riprendersi da Dio ciò che ha dato in prestito alla divinità, cioè quelle qualità divine che erroneamente ha attribuito a Dio e che in realtà sono sue. Feuerbach considera un versetto della prima lettera di S. Giovanni in cui è scritto: “Dio è amore”: in questa frase “Dio” è soggetto, “è” è copula, “amore” è il predicato nominale o parte nominale. Feuerbach capovolge la frase è la trasforma in “l’amore è divino”, in cui “l’amore” è la comunità delle persone (l’umanità) ed è il soggetto, “è” è copula, “divino”, cioè ha qualità divine, assolute. Feuerbach trasforma in questo modo la “teologia” – “Dio è amore” – in cui Dio è soggetto, in “antropologia” – “l’amore è divino”: l’amore, lo stare insieme, la comunità è divina. Si tratta, quindi, sempre di qualità divine, che però Feuerbach attribuisce all’umanità e non a Dio.

Oggi il progetto feuerbachiano è caduto, infatti l’uomo si è accorto di non possedere qualità divine. Feuerbach era un mistico e la sua antropologia aveva ancora un apparato mistico.

2) Modalità scalfariana (Scalfari, ex direttore di “Repubblica”, il quale si ritrova filosofo, definendosi seguace di Voltaire). Scrive Scalfari: “Chi veramente non crede ha abolito la metafisica dal suo orizzonte mentale. La sua mente, cioè, avendo acquisito cognizione dei propri limiti conoscitivi ha cessato di elaborare concetti e immagini concernenti una qualsiasi forma di sopramondo – cioè di qualcosa oltre il mondo. Quando il credente invita il non-credente a cercare la fede, proprio perché la mente non può andare oltre i propri limiti, ottiene ciò che sarebbe un surrogato: questo è il cattivo credente; ma non si avvede – il credente – che il non-credente è arrivato alla non-credenza proprio quando è diventato consapevole dei limiti della propria mente”. Mentre Feuerbach era convinto dei non-limiti della mente – poeta Feuerbach -, Scalfari – prosatore – afferma che la mente ha consapevolezza dei propri limiti, perché non può fare affermazioni su Dio, tuttavia è anche consapevole della propria condizione mortale e ne ha paura: da qui nasce la sua aspirazione al sopramondo, alla vita eterna, alla trascendenza come prospettiva di superamento della morte.

La psicogenesi di Feuerbach e quella di Scalfari sono due cose diverse, opposte. Uno convinto delle qualità divine dell’essere umano, l’altro, invece, convinto dei limiti della mente umana. Così Feuerbach spiega il formarsi dell’idea di Dio, così Scalfari spiega il formarsi dell’idea della morte.