Critica culturale 05 del 15.11.1999

In questa sede io dico delle cose, insegno delle cose: chi vuole viene e mi ascolta. Dire che qui non c’è democrazia – secondo me – significa fare un uso improprio del termine, perché democrazia significa che il popolo decide della sorte di chi governa. Anzi, laddove è nata la democrazia, ad Atene, non era il popolo che decideva chi dovesse comandare: lo decidevano sempre 15, 20 persone. Il popolo era chiamato, dopo un po’ di tempo, a verificare se il governo della città avesse operato bene oppure no. Quindi il popolo, mediante il sistema dell’“ostracismo” decideva se quelli che avevano comandato fino a quel momento dovessero restare oppure no. Ma la scelta di quelli che dovevano comandare non la faceva il popolo.

Questo è il retto concetto di democrazia. Ma il fatto che a casa propria uno decida le regole del gioco non è questione di democrazia.

Voi pensate che anche gli stati dell’ex Unione Sovietica erano governi democratici – si chiamava “democrazia popolare” -. In Occidente c’erano, invece, le cosiddette “democrazie liberali”; “liberali” perché erano fondate sul diritto di ogni cittadino di esprimere il suo parere e di decidere chi dovesse governare. Ma la democrazia non ha niente a che fare con la libertà, con i diritti civili, perché ci può essere uno Stato in cui c’è democrazia popolare, ma ci sono diritti civili.

Ora, il fatto di decidere a casa propria le regole del gioco non è una questione di democrazia, ma soltanto una questione di buona educazione: chi sta in casa sua decide le regole del gioco.

Così anche la parola “dittatura”. Il dittatore non è colui che decide a casa sua le regole del gioco, ma colui che vuole che le regole del gioco di casa sua debbano essere le regole del gioco della casa dell’altro: questo è il dittatore.

Il tiranno è colui che vuole decidere in campo pubblico (non a casa sua) per tutti quanti, cioè colui che identifica la sua idea di bene con il bene di tutti: “ciò che io penso è bene – dice il tiranno -; tutti sono obbligati a fare il bene, di conseguenza tutti quanti devono fare quello che dico io”.

Siccome non ho mai detto che dovete fare quello che io dico, non sono un tiranno, non sono un dittatore, perché non vengo a casa vostra a dire cosa dovete fare ed a obbligarvi, a costringervi. Non sono un antidemocratico, perché andate a votare liberamente chi volete. Perciò, usare il termine “democrazia” in questa sede, è -secondo me – fuori luogo. È necessario usare i termini in senso proprio, perché le liti più furibonde, le guerre, avvengono proprio per imbrogli linguistici.

L’altra volta ho detto – è una frase che ha sorpreso qualcuno – che sono un materialista. Confermo: sono un materialista e sono contento di essere materialista.

Nella vostra mente scatta subito questo pensiero: “ma allora questo qui è un ateo!”, perché immediatamente si identifica il “materialista” con l’“ateo”. Ma non è così.

Qual è per voi il contrario di “materialista”? È “spiritualista”, vero?! “Spiritualista” non è il contrario di “materialista”, assolutamente no! Il contrario di “materialista” è “idealista”. L’idealista non è materialista.

Che vuole dire “materialista”? “Materialismo” vuole dire “immediatezza”, questa è la materialità, è l’immediatezza delle cose. L’idealista, invece, è colui che toglie le cose dalla propria immediatezza e le fa fuggire verso il futuro. Allunga, scopre, inventa il futuro: il futuro diventa il luogo dell’ideale da raggiungere. Quindi il contrario di “materialista” è esattamente “idealista”.

Lo spiritualista, in senso stretto, rigoroso, è un immediato: lo spirito è materiale, è immediato. Per cui esistono “idee materiali” e “idee ideali”. Per esempio: l’idea di Dio è un’idea materiale, perché è immediata. Le idee materiali, cioè quelle immediate, sono poche e sono l’idea di Dio, l’idea di Interno e l’idea di Esterno.

Che vuol dire “immediate”? “Immediate” nel senso che non sono utilizzabili, cioè che stanno lì, di fronte a te e sono irriducibili a te, non le puoi trattare, non puoi scendere a compromessi e non appena le vuoi usare, subito le rovini, le squassi, le sconquassi, le distorci.

Quella di Dio è un’idea materiale, perché è un’idea immediata; quella di Esterno è un’idea materiale perché è immediata: è immediata perché non deriva da altro se non dal fatto che esiste l’esterno a noi, ad ognuno di noi. Quella di Interno è un’idea immediata, perché deriva soltanto dalla coscienza immediata di questo interno che è ognuno di noi. L’idea di Dio, di Esterno e di Interno sono le tre idee materiali.

Molto spesso ci divertiamo a prendere queste idee materiali e a metterle in movimento, le togliamo dalla loro materialità e le facciamo giocare a nostro uso e consumo.

Quando facciamo giocare l’idea materiale di Dio, abbiamo la teologia. Ecco perché sono un feroce critico della teologia, perché la teologia è l’idea materiale di Dio non rispettata nella sua immediatezza. Nella teologia l’idea materiale di Dio viene messa in movimento e le vengono costruite attorno delle favole.

L’idea materiale di Esterno si impone a me, non posso eliminarla, perciò la metto in movimento, ci costruisco su un sistema, una favola e la faccio diventare Mondo. Il Mondo è l’idea materiale di Esterno che faccio giocare, faccio muovere, faccio diventare soggetto di una storia: così ho la “mondologia”. La mondologia è la narrazione del Mondo, il Mondo che diventa un soggetto che racconta la sua storia.

L’idea materiale, o immediata, di Interno la metto in movimento, la privo della sua caratteristica essenziale che è l’immediatezza, la materialità, la faccio diventare soggetto in movimento, la faccio diventare una storia, le faccio inventare un futuro, un divenire e diventa psicologia.

Così abbiamo la teologia, la mondologia e la psicologia che sono tutte e tre delle favole, dei grandi racconti che si fanno a partire da queste idee materiali, cioè immediate, che sono l’idea di Dio, di Esterno e di Interno.

Queste sono le tre famose idee della “Dialettica trascendentale” di Kant: l’idea di Mondo, l’idea di Anima e l’idea di Dio.

Se considerate tutte le ideologie del ‘900, vi renderete conto, con buona facilità, che tutti i sistemi, tutte le ideologie rispondono o a grandi racconti teologici, o a grandi racconti mondologici, o a grandi racconti psicologici. Queste tre idee immediate, queste tre idee materiali vengono fatte soggetto di una storia, si inventa una storia e si inventano delle narrazioni.

La sana materialità, invece, consiste proprio nel distruggere, nel decostruire tutti i grandi racconti che si sono fatti intorno a Dio, all’Esterno e all’Interno e nel restituire queste idee alla loro immediatezza o materialità.

In questo senso mi dichiaro e sono fortemente materialista, perché sono un immediato. Queste idee, proprio perché sono immediate, sono materiali: ci accorgiamo che non derivano da altro. Non possono essere una nostra invenzione, ma giacciono lì: invenzioni sono soltanto i grandi racconti che si costruiscono intorno a queste tre idee.

Non posso usare l’idea di Dio, non posso utilizzarla, perché non appena la utilizzo non è più Dio, ma diventa il mio Dio, cioè quello che mi serve, cioè un Dio che costruisco a mia immagine e somiglianza. Si parte dall’idea di Dio, ma poi questo Dio assume tutti i miei connotati o i connotati della cultura del tempo. Perciò, ogni epoca ha, purtroppo, la sua teologia, la sua mondologia e la sua psicologia. Tutti questi sistemi – secondo me – vengono costruiti soltanto in funzione consolatoria. Proprio perché abbiamo bisogno di mettere le mani su tutto, non possiamo permettere che un’idea resti lì nella sua materialità.

Io non so che farmene dell’idea di Dio! A volte posso dare l’impressione di essere un ateo; posso anche non pensare questa idea di Dio, ma non ci penso perché non posso usarla.

L’idea di Esterno sta lì, non posso usarla, non posso servirmene come voglio, addolcirla, addomesticarla. L’idea di Interno è inutile che io la trasformi in psicologia, in un “io”, perché l’“io” è un’invenzione. Sarà una convenzione, sarà un’utilità linguistica il fatto che debba dare – purtroppo – un soggetto a tante azioni che si compiono.

Il concetto di futuro, dal mio punto di vista, è semplicemente ridicolo, perché soltanto il concetto di futuro mi spinge a prendere queste idee immediate, materiali, ed a trasformarle in grandi narrazioni.

La crisi del ‘900 sta proprio in questo: tutte queste grandi narrazioni sono giunte ormai al termine, ne è stato svelato ormai il segreto. Si è capito, ormai, che queste grandi narrazioni sono soltanto, semplicemente, dei meccanismi di difesa, perché la costruzione dell’idea non immediata, ma ideale di Dio, di Mondo e di psiche serve solo a difendermi. Hanno una funzione difensiva e consolatoria. Ecco perché dico che il ‘900 è un secolo lucido: è lucido perché non è più possibile costruire grandi o medi o piccoli racconti in buona fede. La buona fede è morta! È inutile illudersi.

Molta gente ha capito queste cose, per cui si dice che questo è il secolo della crisi proprio perché è impossibile stare a costruire altre nuove narrazioni, altri nuovi racconti.

Quello che vedremo in questo corso è proprio il modo in cui avviene questa decostruzione e questa distruzione non solo dei racconti, dei grandi racconti, ma della possibilità che se ne possano fare altri.

Il nostro secolo ha avuto l’ambizione di formare le coscienze, però le ha formate con ideologie, con i grandi racconti, che hanno sparso morte dovunque. Questa è in breve la crisi del ‘900.

Purtroppo, devo dire che i nostri intellettuali, almeno quelli italiani, non riescono ancora ad arrendersi a queste idee materiali e costruiscono ancora racconti. Per esempio – letto sul settimanale “Io Donna” del Corriere della Sera -, Umberto Galimberti risponde ad una ragazza che chiede più o meno: “Come mai non è più possibile costruire altri racconti, come mai l’ultima prospettiva dell’occidente è il nulla”. Galimberti risponde: “Che i valori mutino, mi pare sia iscritto nell’andamento stesso della storia, che altrimenti sarebbe un’eterna ripetizione, immagine anticipata della morte in cui lei individua l’unica certezza assoluta che rimane nel trasmutare di tutti i valori. Io amo questa continua trasmutazione”. Pensate un po’ a cosa si lega Galimberti, a questa trasmutazione continua dei valori che servono soltanto ad allontanare quella che è la verità assoluta, indubitabile della morte.

Come faccio a dimenticare che c’è la morte? Lo faccio aggrappandomi a questi valori che trasmutano continuamente. Quindi è inutile che voi diciate “sono scomparsi i valori”; devono scomparire, perché se non scompaiono non ne potrebbero comparire altri. Non è che oggi non ci siano valori, ce ne sono troppi ed in un’epoca di consumismo i valori non possono essere 4 o 5, devono essere 4 mila, 5 mila, 6 mila, 10 mila, perché si consumano presto. Se non ci fossero molti valori, l’idea della morte, che è un’altra idea immediata, materiale, ci scasserebbe il cervello.

Galimberti sembra dire: “Io voglio che i valori trasmutino, perché se non trasmutano io sono morto; se non spingo il pedale dell’acceleratore del divenire io sono finito, la morte mi prende”. Questo trasmutare dei valori – questa è l’idea di fondo – è il luogo della differenza tra l’uomo e l’animale, costretto a ripetere continuamente sé stesso senza storia, vincolato com’è al giogo alla natura.

Che cosa è la Storia? È il continuo trasmutare dei valori per sfuggire alla morte. La Storia è il cimitero delle esperienze, perché le esperienze devono essere consumate continuamente. Non puoi fare solo 3, 4, 5 esperienze; devi farne quante più è possibile, perché oggi le esperienze si consumano molto velocemente. È la sensazione che anche voi avete quando siete costretti a ripetere delle cose più di una volta: avete la sensazione di morire. Bisogna mettere su altre storie.

Il sesso: “…gli uomini lo hanno sempre conosciuto sotto il vincolo della necessità. Sussulti rivoluzionari e progressi tecnico-scientifici hanno spezzato il nesso tra piacere sessuale e generazione, sottraendo, così, la sessualità al ritmo ineluttabile della natura per consegnarla alla libera scelta dei comportamenti. Mi pare un gran bel passo avanti e, al di là delle esagerazioni, una grande conquista: amare e generare per scelta è meglio che amare e generare per necessità”. Che altra bella scoperta, che altra bella storia. Questa necessità sta sia all’inizio, sia a metà e sia alla fine del processo, ci ossessiona: si deve sfuggire sempre a qualcosa. E questa la chiama libertà, la chiama passo in avanti, cioè questo autoinganno lo chiamano libertà, passo in avanti. “La morte, che sia l’unica certezza rimasta perché è l’unico atto della vita irrevocabile, a me non dà alcuna consolazione ed alcun conforto”. È ovvio. Io devo scegliere quello che mi dà consolazione e conforto!?! Galiberti – secondo me – relativizza tutto. Invento favole per dimenticare questa grande verità che è l’unica certezza. Se non mi dà conforto, allora, anche se è vera, la nego, la rimuovo dal campo della coscienza.

Così agisce oggi la cultura. Ecco perché la cultura è sempre una cultura di massa. Come si fa a tenere buone le masse? Non certo parlando di queste cose. “La trascendenza non è quell’esagerazione che pensa un mondo al di là del mondo, ma in quella più modesta dimensione che spinge l’uomo ad oltrepassare la realtà in cui si trova a vivere, per un possibile non ancora esperito”. Cioè la trascendenza non è intesa come Dio, ma è l’andare sempre al di là del punto in cui ti trovi, inventare storie continuamente, fare sempre nuove esperienze.

Ma perché si fanno queste esperienze? Sempre per tenere ben rimossa la coscienza dell’unica certezza, quell’idea materiale che è la morte. È chiaro che, costruita così, la vita di un essere umano è nevrotica, perché deve stare sempre a rimuovere l’ultima e l’unica certezza materiale dal campo della coscienza.

Se così stanno le cose, non capisco perché si dia torto a chi, per esempio, usa la droga per sognare: in realtà hanno lo stesso obiettivo di certi intellettuali. Se tutta la cultura ha la finalità di rimuovere dal campo della coscienza questa verità, perché impedire l’utilizzo di sistemi come la droga, che hanno questa stessa finalità?

DOMANDA: “Ma la droga ti porta prima alla morte”.

RISPOSTA: Perché dopo a cosa ti porta?! Ecco perché dico sempre che la cultura, soprattutto quella del ‘900 con le grandi narrazioni, è una cultura di morte, perché è questa pulsione di morte che porta a inventare tante storie, per sfuggire all’unica certezza che è la morte.

Quante ideologie ha inventato il ‘900?! L’ideologia dello Scientismo, per esempio. Voi pensate che il ‘900 iniziò con un grande ottimismo: “questo è il secolo della scienza e della tecnica – dicevano -, finalmente tutte le oscurità della mente umana saranno dissipate dalla luce della scienza e della tecnica”. Non l’avessero mai detto! Nel 1915 scoppiò la prima Guerra Mondiale.

Poi le grandi esperienze totalitarie: Comunismo, Nazismo, Fascismo, la globalizzazione in economia. Tutte storie che l’uomo ha necessità di inventare per negare l’unica certezza.

Il profeta della dissoluzione della crisi del ‘900 non è stato né Marx, né Freud né altri. Marx cominciò bene: quando l’ho studiato, l’ho apprezzato inizialmente per la sua materialità, perché era capace di scoprire cosa c’era sotto i pensieri ideali. Lui era un buon indagatore, scopriva tutte queste volontà consolatorie, tutte queste volontà dì costruzione di grandi racconti. Diceva Marx che bisogna rimettere il mondo con i piedi per terra, senza farlo andare troppo tra le nuvole. Poi pure lui cadde nell’imboscata tesa dall’ideale, parlò del “fine della storia”, cominciò a dire che la storia si muove dialetticamente, va sempre verso il meglio. Anche lui si rovinò.

Freud era convinto che questo terreno, questo stagno dell’inconscio, dell’“es”, potesse essere un po’ bonificato. Era meno ottimista di Marx, perché non credeva ad un fine della storia, ad un movimento quasi automatico della storia che – secondo lui – aveva perso il meglio. Però pensava che le cose potessero aggiustarsi un po’ di più, ma non ha colto il vero motivo della crisi del ‘900.

Il pensatore che ha colto, invece, in pieno i motivi di fondo della crisi del ‘900 è stato il filosofo Nietzsche. Parleremo a lungo di questo autore, non perché dica la verità, ma perché dice la verità sul ‘900, sulla nostra cultura.

La teologia precedente, a parte certe intemperanze teologiche, era molto più rispettosa dell’idea materiale di Dio.

La teologia del ‘900 è mondanizzata, cioè è futurologia, parla del Dio del futuro, del Dio del divenire. I teologi del ‘900 hanno coniugato Dio con il tempo del futuro, lo hanno immesso in questa grande narrazione. Questo è il futurismo in teologia.