Etica 03 del 05.05.1997

“Etica” e “Morale” sono le parole chiave del corso che stiamo facendo. Avete capito bene che sono un moralista e non un eticista, perché la domanda di etica che si è sviluppata molto in questi ultimi tempi è la spia, il sintomo di una paura che attanaglia un po’ tutti e quando si parla troppo di etica vuol dire che la paura è grande.

L’Etica è la volontà di trovare un principio immediato di comportamento che non sia suscettibile di ulteriori discussioni, cioè che non sia suscettibile di critica; un principio immediatissimo, che i filosofi stessi chiamavano il “cominciamento”. Qual è il “cominciamento?”. Il “cominciamento” è quel principio così evidente che non ha bisogno di dimostrazione. Ora l’Etica è questa volontà, questo bisogno, questo desiderio, questa allucinazione – perché l’Etica è frutto di allucinazione – di trovare un principio immediatissimo, incontrovertibile, non suscettibile di discussioni, non bisognoso di essere dimostrato, in modo tale che in corpo a questo principio si possa rifare tutto il tessuto sociale – tessuto sociale che si era lacerato profondamente e duramente a seguito della caduta dei miti avvenuta nel ‘68. Ecco perché oggi s’insiste molto sulla bioetica, sull’etica del capitalismo, sull’etica della scienza, sull’etica della sessualità, ecc. Tutto sta nella ricerca di questo principio immediatissimo, non bisognoso di dimostrazione, ossia il principio di comportamento. Ma noi sappiamo che tutti questi bisogni, desideri, allucinazioni, sono appunto bisogni, desideri, allucinazioni, sono spie di un malessere diffuso, di un malessere ereditato. Gli eticisti credono di aver scoperto il principio immediato di comportamento.

La Morale, invece, è il “principio riflesso”, il principio di riflessione e non un principio di comportamento, un principio di riflessione che cerca sempre il significato di quello che fa: a volte lo cerca prima, a volte dopo averlo fatto, ma sta sempre lì a cercare il significato di quello che fa e di quello che dice. Per questo il moralista è un possibilista. Il moralista è pronto a criticare sé stesso e gli altri. L’etico o l’eticista, invece, trova molta difficoltà a criticare sé stesso, critica sempre gli altri.

Qual è quel tipo di conoscenza, di sapere, che si vanta – ma ormai non si vanta più tanto – di saper evidenziare dei principi immediati di comportamento? Questo sapere è la scienza, la scienza sperimentale. Così come si è affermata in Occidente, sotto l’aspetto di scienze tecniche, la scienza riteneva – oggi le cose non sono più tanto pacifiche anche nel campo della scienza – di poter scoprire il principio immediato di comportamento, quindi un’etica – per dirla alla Spinoza, un “novae scientifico” – secondo un modo di procedere geometrico. Ma questa pretesa di produrre un’etica in senso geometrico – un’etica in cui due più due fa quattro – ce la dobbiamo togliere dalla testa.

Lo stesso discorso viene applicato al campo della sessualità e abbiamo visto che oggi nel campo della sessualità si cerca un principio immediato di comportamento: si è pensato che questo principio fosse il “piacere”. Il piacere è la molla, il principio-vita immediato di comportamento, perché – si dice – chi di noi non cerca il piacere? Vorrei trovare qualcuno che cerca il dispiacere, perché se qualcuno cercasse il dispiacere, sarebbe subito accusato di masochismo. Quindi il piacere è questo principio immediato di comportamento, ed è giusto – dicono – che nel campo della sessualità ci sia tutto ciò che piace. Parliamo di persone consenzienti, perché è chiaro che il paradigma scientifico deve essere scelto da persone che ragionano e decidono. Ma allora non è possibile il piacere se non è lecito che avvenga tra un consenziente adulto ed un minorenne che non lo è, anche se su questo alcuni discutono. Perché, allora, negare il piacere ad uno che non ha ancora la maggiore età? Il principio etico immediato di comportamento nel campo della sessualità è il piacere, ma purtroppo quando si vuole affermare un principio come unico ed immediato bisogna evitare che intorno a questo principio ci siano delle discussioni, e quindi il piacere deve essere un fatto evidente, immediato, immediatissimo, senza possibilità di starci a pensare sopra e di metterlo in discussione. Invece il piacere può essere posto benissimo sotto discussione e sotto critica, e così dal campo dell’etica passiamo al campo della morale.

Il moralista è una persona critica. Non si accontenta di spiegazioni facili. Una persona che va al di là, che rifiuta i luoghi comuni, una persona che arriva a discutere proprio su quei principi che sembrano di evidenza immediatissima, perché il moralista sa di che pasta siamo fatti, e sa che dietro queste affermazioni di principi evidentissimi ci possono essere tanti e tanti significati che devono essere enucleati ed evidenziati. Il moralista non si ferma dinanzi a niente e a nessuno, neanche dinanzi a Dio, perché anche a Lui pone delle domande. Il fatto che poi si arrenda all’Assoluto è un’altra storia, ma le domande le pone. Ecco la differenza tra l’eticista e il moralista: l’eticista è convinto di poter arrivare a dei principi immediati di comportamento, il moralista, invece, è un tipo sospettoso, sospetta di tutto e di tutti, sospetta che dietro a certe affermazioni roboanti, ci siano in realtà dei bisogni, non dico umani, ma tante volte sub-umani.

E allora si chiede il moralista: “ma che cos’è il piacere?” Sembra che questo principio del piacere sia un principio immediatissimo ed evidentissimo su cui non si può neanche discutere. Che cosa è il piacere? Ecco che il moralista si mette a fare delle ricerche di carattere etimologico, filologico su questa parola. Perché, ricordiamocelo sempre, non è vero che le parole possono essere usate in maniera indiscriminata, “tanto ci capiamo lo stesso”. Non è vero, perché va a finire che ognuno attribuisce alle parole un suo significato e così non ci capiamo più. Le parole hanno una loro dignità. Dietro ogni parola c’è una realtà, ma non c’è equivalenza tra parola e realtà, perché la realtà è molto più grande delle parole che usiamo per descriverla: le parole sono soltanto dei mezzi di trasporto della realtà, ma non sono la realtà. Se le usiamo, però, ci deve essere un rapporto stretto tra la parola e la realtà corrispondente. Le parole non sono un fatto puramente convenzionale, perché così abbiamo deciso di dire e così diciamo: ciò vale solo per le persone ignoranti che non sanno a quale realtà corrisponde quella parola. È importante andare a cogliere le parole là dove sono sorte, nello stretto intimo contatto con la realtà in cui sono nate. Questo è il lavoro da fare. La parola “piacere”, per esempio, la usiamo abbinandola al “godimento” e non c’è niente di più sbagliato di questo, perché se usiamo la parola “gioia” e “godimento” intendendole come “piacere”, facciamo delle enormi confusioni che portiamo poi nel linguaggio comune. La confusione la portiamo prima dentro di noi e poi la comunichiamo anche agli altri. Noi usiamo in maniera uguale “piacere” e “godimento”, ossia il godimento sessuale è uguale al piacere sessuale. Ma queste sono due cose opposte. La parola “piacere” deriva dal latino “placet”, cioè dal verbo “placare”. Ciò che è placato non ha impennate e non ha asprezze. Vuol dire “levigato”. Il piacere è piattezza, appiattimento. Ma “godimento” è la stessa cosa di “appiattimento”? Il godimento è forse una realtà senza impennate e senza asprezze, senza vita? Perché le impennate, le asprezze, il movimento oscillante, sono proprio il godimento della vita. E placare che vuol dire? Ridurre tutto al piatto – “plac” è la radice della parola “piatto” -. E chi sono i placati? Sono i morti. Il piacere non è altro che la ricerca del “rigor mortis”, del rigore cadaverico, della piattezza. Questo è il piacere. Cercare il piacere nel campo della sessualità significa proprio cercare la pacatezza. Cercare esattamente tutto ciò che è piatto, ossia la morte. Quindi il principio di piacere è un principio di morte. Questo l’aveva capito bene Freud, così come gli psicanalisti francesi, che chiamano il principio del piacere sessuale “piccola morte”.

Ma perché l’essere umano cerca la morte? L’essere umano cerca la morte perché non riesce a sostenere il proprio “Io”. Quando dico “sostenere il proprio Io”, intendo dire “sostenere la propria separatezza”. L’etimo della parola “sesso” è “separato”. Questo significa sesso: tutto ciò che è separato. Essere “sessuati” significa essere confinati alla propria individualità. Il sesso, più che indicare gli organi genitali, indica il fatto che ognuno di noi confina con la propria pelle. Poi con la parola sesso si è passati ad indicare la differenza sessuale, poiché la differenza degli organi genitali è la maniera prima, la maniera più evidente d’indicare e di osservare la differenza tra l’uno e l’altro, ma non è che la parola sesso si riferisca innanzitutto e prima di tutto alla fisiologia degli esseri umani. La sessualità è una dimensione esistenziale, per cui io sono io e non posso essere un altro “io”. Sono confinato nella mia pelle. La parola “sesso” – da “sexus” – vuol dire separatezza. Il tentativo di uscire dalla mia pelle e di unirmi ad un altro, invece, si chiama “nexus”. “Nexus” è la forma sincopata di “non-sexus”, cioè “non-separatezza”. Il fatto è che dopo ogni tentativo di “nexus” siamo immancabilmente riconsegnati dal destino al nostro “sexus”, proprio perché noi veniamo restituiti alla nostra individualità e alla nostra separatezza.

Allora che cosa è il piacere sessuale? Il piacere consiste proprio in questa voglia, in questa volontà di uscire dal nostro “io”, di annullarlo. Ma annullare il nostro “io” vuol dire morire, andare incontro alla morte, vuol dire procurarsi la morte. Quelli che cercano il piacere sono necrofili, cioè gli piace la morte. Ma la morte non si cerca, perché la morte ce la portiamo sempre dentro. Ora, nell’attività sessuale di “nexus”, il piacere consiste proprio nello staccarsi di dosso, rinunziare, anche se per brevi istanti, alla propria individualità, alla propria coscienza, perché la riteniamo pesante, insopportabile. Freud la chiamava “principio di thanatos”, cioè tornare alla morte. Quindi il piacere è un’attività che vuol condurre ognuno di noi alla morte.

Il godimento, invece, non è questo. È l’esatto contrario di questa volontà di morte, perché significa “rallegrarsi”. La gioia è quel sentimento che proviamo dentro di noi quando riconosciamo il nostro destino e gli andiamo incontro, quando accettiamo il nostro destino. Riconoscere la “necessità” di andare verso il proprio destino e questo andare immediatamente incontro alla necessità, cioè verso il nostro destino, produce un sentimento di gioia, interiore ed esteriore.

Quali sono le necessità? Ce n’è una sola e la nostra necessità si chiama Dio, l’Assoluto, dinanzi al quale nasciamo e moriamo. Le altre due facce di Dio sono: la Morte, perché non possiamo stare dinanzi a Dio dimenticando la nostra posizione (è necessario che dinanzi a Dio noi moriamo); e il Sesso, la sessualità, inteso come essere confinati con sé stessi ed è proprio la sensazione di stare dinanzi all’Assoluto che ci dà veramente la dimensione della nostra individuazione, del fatto che siamo separati, che siamo consegnati a noi stessi. Andare incontro a questo destino e andarci liberamente, significa provare un sentimento di gioia, di gaudio, di godimento: quindi il godimento comporta una presenza completa, una presenza non offuscata della nostra vita, del nostro sentire, della nostra corporeità, tutto il nostro essere è lì, solido.

Invece il piacere, essendo necrofilia, porta all’annullamento della mente, del sentire, della nostra corporeità, perché avvertiamo come necessario, quando cerchiamo il piacere, di uscire da noi stessi, perché non riusciamo a sopportarci. Siamo dei necrofili. Ora immaginate un’etica della sessualità che fa appello, che si fonda sul principio del piacere. Questi fenomeni di morte che vediamo continuamente, questi odori di necrofilia che avvertiamo dovunque, questa parola che è ormai sulla bocca di tutti – cioè il piacere, il principio di piacere, il cercare il piacere – sono proprio il taglio di fondo della nostra cultura e della nostra civiltà. C’è molta, molta necrofilia nella cultura occidentale. Vorremmo uscire continuamente dalla nostra vita, vorremmo stare fuori di noi stessi, rifiutiamo noi stessi e non vogliamo essere quelli che siamo, perché solo così possiamo trovare il piacere. Quando sentiremo una persona dire: “come sono contento di essere quello che sono”, è lì che c’è il godimento. Invece il piacere è il negare sé stessi, è diventare necrofili e chi nega sé stesso prima o poi comincia a negare pure gli altri, perché diventa un vizio quello di negare sé stessi e gli altri, proprio perché non si riesce a portare addosso la coscienza della propria individuazione.

Per questo vi dissi che l’esperienza di “Charta ‘97” ha questa finalità: il processo di individuazione, cioè un processo che porta ad una coscienza piena, completa di sé, una coscienza di verità grande dinanzi alle tre primordiali necessità che sono: Dio, la Morte e il Sesso, inteso come separazione.

Ecco cosa fa il moralista. Non si accontenta di prendere e chiedere piacere e di ritenerlo valido così com’è, perché si chiede “che cosa è il piacere?”. Il moralista ci studia attorno, ci riflette, lo confronta e scopre il significato di questo piacere; non lo nega, sa che ci sta, però lo descrive in tutto il suo significato, descrive lo stato civile di questo principio del piacere, ne descrive la struttura, ne descrive l’origine, descrive tutte le sue forme; insomma lo conosce, non si fa prendere in giro dal piacere, dal principio immediato. Questo nel campo della sessualità.

L’anno prossimo parleremo dell’etica della scienza: questo è importante, perché ci troviamo immersi in un mondo tecnico-scientifico. Questo processo non può essere fermato, ma possiamo trovare e capire il significato di ciò che avviene.