Psicoanalisi 08 del 16.03.1998

Com’è stato già detto le volte precedenti, la psicologia cerca di mettere le persone in relazione fra loro con vincoli duraturi, mentre la psicanalisi è prima di tutto quel metodo e poi quello stile che scioglie le relazioni fra gli individui.

La parola “psicoanalisi” deriva dal greco e significa “sciogliere la psiche”. La psicoanalisi è all’opposto della psicologia.

Per “relazione”, che la psicoanalisi tende a rompere, si intende – con una frase del filosofo Berkeley, vissuto nel 1700 – “esse est percipi”, frase che esprime il concetto secondo il quale l’essere consiste nell’essere percepito. Quindi, una persona esiste solo se un’altra la guarda. Se questo fosse vero, ognuno di noi dipenderebbe strettamente dall’altro e non sarebbe un bel vivere.

L’unica relazione che esiste veramente è la relazione tra una parte ed il tutto, quindi tra noi che siamo finiti e l’Assoluto che è infinito; la relazione tra finiti e finiti non può esistere, potrebbero esserci solo dei rapporti. La relazione è diversa dal rapporto. Nella relazione esiste il “refero”, ossia colui al quale io mi riferisco, ottenendo la mia identità e costituendo, quindi, un processo di “etero-identificazione” anziché di “auto-identificazione” che si otterrebbe nel caso in cui il referente di un individuo fosse egli stesso.

Gran parte della nostra energia la spendiamo cercando in tutti i modi di essere in relazione l’uno con l’altro e questa dipendenza, che tale relazione comporta, non ci rende liberi, ma ci uccide prima del tempo.

Il rapporto, più semplicemente, è lo stare insieme, liberi e senza fini di dipendenza o di bisogni, traendo piacere da tale compagnia.

L’ideale sarebbe una “comunità monastica”, che sembrerebbe una contraddizione in termini, ma che in realtà è solo un vivere in una comunità nella quale esiste uno stile di vita comune ad ognuno. Proprio perché ognuno è un “monos”, questo stile di vita lo vive per conto proprio, con impegno personale ed individuale. Il fine della comunità monastica è quello secondo cui ognuno può coltivare la propria personalità.

La parola “individuo” significa “non divisibile” e la persona indivisibile è quella persona che mantiene il suo stile di vita costantemente in ogni luogo che frequenta. La leggerezza e l’immediatezza che il rapporto presuppone permette alle persone di stare bene e di non dare conto all’altro, tranne che per le normali regole di buona educazione e di convivenza civile.

È possibile creare, all’interno di questa comunità monastica, una sorta di analisi “gruppale”, poiché se esistono all’interno del gruppo concetti di verità assimilati bene, tali concetti hanno modo di farsi strada e di emergere in qualità di comportamento.

Il concetto di relazione è un concetto estremamente infantile. Molto spesso si manifesta il bisogno di voler bene a qualcuno, ma bisogna fare attenzione a questa pulsione. Si confonde spesso il “voler bene” con il “bisogno” che si ha di una persona e questo fatto è ancor più grave, perché un bisogno ci lega solo temporaneamente ad una persona; poi, quando un bisogno cede il posto ad un altro, la persona “chiamata” a soddisfarlo sarà certamente un’altra. I guai di una persona cominciano quando in essa nasce il bisogno dell’altro; e povero questo altro che è l’oggetto del nostro bisogno!

Le uniche persone di cui è possibile fidarsi sono le persone che non manifestano alcun bisogno di entrare in relazione. Il bisogno di cui un’altra persona viene investita, è un bisogno pesante da sostenere e a lungo andare grava come un macigno sulla libertà della persona interessata. Inizialmente la persona che avverte di rappresentare un bisogno per un’altra vive una condizione galvanizzante, ne prova piacere, ma dopo, questo vincolo affettivo, risulta pesante, insostenibile e non si riesce più a mantenere viva la richiesta di affetto che l’altro necessita. Solo le persone monastiche riescono a vivere bene fra di loro, perché non manifestano in alcun modo il bisogno di affetto che molti manifestano. È fondamentale auto affezionarsi. Noi abbiamo bisogno dell’affetto degli altri perché non siamo mai stati abituati ad affezionarci a noi stessi. Gesù stesso ci dice di amare il prossimo esattamente come amiamo noi stessi, invece noi facciamo del volontariato, sforzandoci di amare, per così dire, gli altri, ma a noi stessi non pensiamo proprio. Sin da piccoli siamo stati formati nella relazione, ma se cerchiamo la verità delle cose è necessario venire fuori da questa strutturazione primordiale in modo lento, faticoso e deciso. Il dipendere dall’affetto degli altri è una tirannia che tutti abbiamo provato nella nostra vita ed il motivo per cui il mondo va male è perché esistono poche persone che sanno stare bene da sole. È destrutturante fidarsi affettivamente ed emotivamente di un altro essere, perché si diventa succubi di esso. È necessario autoaffezionarsi e risolvere autonomamente il problema dell’affettività, perché solo in questo modo è possibile stare bene con gli altri in quanto li si libera del proprio bisogno. “Nemo dat quod non habet”, che significa: “nessuno può dare ciò che non ha”. Solo chi ha una propria pienezza può dare, ma non nella ricerca di una relazione; l’unica relazione è quella con l’Assoluto, tutte le altre presuppongono un bisogno. Autoaffezionarsi vuol dire essere contenti di sé stessi.

Completarsi in una coppia e sentirsi bene nel giudicarsi un tutt’uno con l’altro o con l’altra è la cosa più negativa e deleteria che possa esserci. L’amore come lo intendiamo noi è un qualcosa di non definito, una specie di alibi che copre tante cose che con l’amore non hanno nulla a che fare.

Per definire l’amore, gli antichi greci usavano tre parole: eros, filia, agape.

Eros, secondo la mitologia, era figlio di una donna chiamata “Povertà” e di un uomo chiamato “Astuzia”.

Il termine “filia” indica un legame che prende tutti quanti.

L’“agape” indica le opere che dipendono da tale filia.

Più precisamente, l’eros è strutturato di bisogno e di astuzia ed indica il modo di ottenere qualcosa di cui si ha bisogno mettendo in atto delle tecniche strategiche.

La filia è il filo che lega tutti gli esseri umani, un filo che esiste già e che quindi rende inutile ogni tentativo di produrlo. L’amore non si fa, l’amore esiste e noi, ogni giorno, siamo chiamati a prenderne sempre più coscienza. Quando prendiamo consapevolezza di questo filo che lega tutti noi, allora siamo capaci di sostituire il concetto di “altro” con il concetto di “prossimo”. “Amore” significa prendere coscienza di questo filo che lega me ed il mio prossimo in un unico destino che è quello di andare incontro alle tre necessità che sono Dio, la Morte ed il Sesso, inteso come l’essere confinato con sé stesso. L’Eros è l’applicazione delle strategie che servono a soddisfare il bisogno di affetto che ognuno possiede, ma, alla fine, si scopre che tale bisogno non si soddisfa mai. L’altro non può dare ciò che l’uno non possiede, perché ciò che si cerca non è presente neanche nell’altro. Ciò che ci manca è l’Assoluto che noi non siamo e nessuno di noi può caricarsi del compito impossibile di sostituire l’Assoluto. Comune è il rendersi conto della delusione delle nostre aspettative, a meno che non si rifletta sulla filia, cogliendo questo legame che tiene tutti accomunati in un unico destino.

Da questa filia nascono le opere, che sono le cure quotidiane che ci prendiamo. Tutto il lavoro di individuazione consiste proprio nell’arrivare a questo concetto di filia. Le persone molto cariche di affetto soffrono della così detta “sindrome bipolare”, per cui esse passano alternativamente da uno stato di profonda depressione, in cui si sentono spente e prive di affetto, ad uno stato di euforia maniacale in cui sprizzano gioia ed affetto travolgente. Il processo di individuazione ci porta, giorno per giorno, a renderci conto dell’unico bisogno di relazione, quella con l’Assoluto, e a capire che l’altro non potrà mai completarci.

Noi siamo dei “teopatici”, la nostra malattia è Dio, in quanto cerchiamo sempre l’Assoluto e non lo troviamo mai e questo ci rende scontenti ed insoddisfatti. Dato che noi non sappiamo di essere teopatici, pensiamo che la colpa di tutto questo malessere interiore dipenda dagli altri, i quali non sono capaci di darci ciò di cui noi abbiamo bisogno. Tutti i nostri errori dipendono da questa teopatia. Quando un altro ci vuole bene non ci soddisfa, perché questo voler bene non è il tutto che noi cerchiamo.

Le relazioni sono sempre deludenti, perché la stessa parola “relazione” presuppone una dipendenza.

Il contrario di “relativo” è “Assoluto”. L’“Assoluto” è ciò che definisce il “relativo”. Nell’analisi psicoanalitica, lo psicoanalista rappresenta l’assoluto nei riguardi del paziente, secondo una tecnica di “contro-transfert”, in mancanza della quale non può esistere la relazione.