Teologia 04 del 14.03.1997

Stasera voglio raccontarvi la parabola discendente del pensiero ebraico. I più grandi pensatori sono ebrei: Mosè, Salomone, Gesù, Freud, Einstein.

La parabola discendente del pensiero ebraico. Dice Mosè: “Tutto è in alto, tutto è in Dio”. Dopo Mosè venne Salomone e disse: “Tutto è nella testa (la saggezza, l’intelligenza)”. Poi venne Gesù e disse: “Tutto è qui, nel cuore”. Poi venne Freud e disse: “Tutto è qui, nel basso ventre (il sesso)”. Poi venne Einstein e disse: “Tutto è relativo”.

Qual è tra queste la proposizione più vera e quella più falsa? Le proposizioni possono stare tra loro in un “rapporto di diversità” e non cadono mai in contraddizione; per esempio: “io mangio” e “io vedo la televisione”, sono due cose diverse che possono essere fatte contemporaneamente. Ci sono invece proposizioni che stanno tra loro in un “rapporto di opposizione” per cui sembra che l’una escluda l’altra. Per esempio: “tutti gli uomini sono bianchi” e “tutti gli uomini sono neri”. Se è vero che tutti gli uomini sono bianchi non è vero che tutti gli uomini sono neri e viceversa. Questo è un “rapporto di contrarietà”.

La regola delle proposizioni contrarie è che una è vera e l’altra è falsa, oppure può capitare che tutte e due siano false, come è falso, per esempio, dire che tutti gli uomini sono neri o tutti gli uomini sono bianchi.

C’è un altro rapporto di opposizione che si chiama “rapporto di contraddizione” o di contraddittorietà. Nel rapporto di contraddittorietà è sempre vero che se una proposizione è vera l’altra è falsa e se una è falsa l’altra è vera. Facciamo un esempio.

“Tutto è relativo!”. Quale sarebbe la proposizione contraria? “Tutto è assoluto!”.

Ma noi sappiamo che non tutto è assoluto. Quindi, se dico “tutto è relativo” la contraddittoria sarebbe “qualcosa è assoluto”, poiché è sufficiente che qualcosa sia assoluto perché non tutto sia relativo.

Come si fa a provare che qualcosa è assoluto? Dimostrando che è falso dire che tutto è relativo. Questo perché per la regola delle proposizioni contraddittorie, se una è vera l’altra è falsa. Non c’è scampo. Quindi le due proposizioni contraddittorie sono: “tutto è relativo” e “qualcosa è assoluto”. Se è vera l’una è falsa l’altra.

“Assoluto” vuol dire “sciolto da ogni legame di dipendenza”, ciò che non ha bisogno di altro per definirsi, ciò che si sostiene per sé stesso e non ha bisogno di stare in relazione ad altro. Vediamo se è vero che tutto è relativo.

“Tutto è relativo” è una proposizione falsa, perché contraddittoria in sé stessa. Infatti nega nel predicato ciò che afferma nel soggetto. Il soggetto è “Tutto”, “è” copula, “relativo” vuol dire “dipendente da…”. Ora, se tutto è “dipendente da…”, vuol dire che quel tutto non è tutto, perché c’è ancora quel “da…” che sfugge ancora al tutto e anche se dicessimo che “ogni cosa è relativa” il problema sarebbe lo stesso: è relativa ad altro. Quindi c’è qualcosa da cui ogni cosa dipende e che non è più relativa ad alcunché. Dalla falsità, dalla contraddittorietà dell’affermazione “tutto è relativo” consegue la verità assoluta che “qualcosa è assoluto”.

L’affermazione “tutto è relativo” la si sente spesso nel modo di parlare corrente. Non ci accorgiamo, quando affermiamo questa proposizione, che stiamo dicendo una cosa falsa. Non ci rendiamo conto della portata di quello che diciamo, non ci rendiamo conto che proprio la falsità di questo “tutto è relativo” ci dimostra, ci chiarisce che qualcosa è assoluto. Questo significa che l’assoluto è il fondamento della nostra ragione. Noi non potremmo ragionare, emettere giudizi se questo assoluto non facesse parte della nostra ragione. Affermare che qualcosa è assoluto è un’affermazione assoluta della nostra ragione, perché se negassimo l’assoluto dovremmo affermare che tutto è relativo, ma è falso che tutto è relativo, perché essendo relativo a qualche altra cosa, quel tutto non sarebbe proprio tutto.

Questo è un modo per capire come l’idea dell’assoluto è radicata, presente, ineliminabile nella nostra mente. Cioè la nostra ragione non può essere atea, perché ogni affermazione di ateismo dovrebbe comportare questa affermazione: “tutto è relativo”. Ma “tutto è relativo” è l’affermazione più falsa che si possa fare. E se è falso che tutto è relativo vuol dire che qualcosa è assoluto e a questo qualcosa di assoluto noi diamo il nome “Dio”. Dio non è il nome proprio di una persona. La parola “Dio”, la radice di questa parola, significa “chiarezza”, “luminosità”, ma la qualità primaria, fondamentale di quello che noi chiamiamo Dio è l’“assolutezza” e che questa assolutezza ci sia ce lo dice il fatto che è falsa l’affermazione “tutto è relativo”. È impossibile che tutto sia relativo, perché quel tutto non sarebbe poi tutto. Mancherebbe a questo tutto ciò da cui dipende; appunto “tutto è relativo”.

L’idea dell’assoluto è un’idea fondamentale, ineliminabile dalla nostra ragione. Eliminare l’assoluto, proclamare l’ateismo è un atto contro ragione. Purtroppo quando facciamo certe affermazioni (“tutto è assoluto”, “tutto è relativo”) non ci rendiamo conto della portata di quello che diciamo, di quello che pensiamo, perché se facessimo uno sforzo per pensare “tutto é relativo” non riusciremmo a pensarlo veramente, ci accorgeremmo che il linguaggio tradisce, in questo caso, il pensiero.

Il linguaggio è al di sotto del pensiero, perché è impossibile che tutto sia relativo, in quanto a questo tutto mancherebbe ancora quel qualcosa da cui tutto dipende. Quindi la proposizione si contraddice in se stessa. “Contradictio in terminis” dicevano i filosofi scolastici. Quindi, questa idea dell’assoluto è depositata nella nostra mente. Noi non sappiamo ancora se a questo assoluto corrisponda qualche cosa di realmente esistente, però sappiamo che la nostra ragione non può funzionare senza questa idea dell’assoluto. E l’assoluto è la qualità primaria, caratteristica di Dio stesso. Ciò che chiamiamo “tutto”, ma che non è tutto, è una parte in relazione con l’assoluto e questa relazione è assoluta. Questo significa la Creazione.

Non pensiamo alla creazione come ad un atto magico, come se Dio in un bel momento si fosse svegliato e avesse detto: “Oggi voglio creare il mondo” – e abbiamo tutta la storia dei sei giorni.

La nostra relazione con Dio è assoluta come è assoluto Lui. Tutto ciò che esiste è da sempre in relazione con Dio.

Diceva S. Agostino che non è che prima esisteva il tempo e poi Dio ha creato le cose, per cui le cose si sono trovate inserite nel tempo e nello spazio. Il tempo e lo spazio sono due dimensioni delle cose che esistono.

Quindi non possiamo dire: “che faceva Dio prima di creare il mondo?”. Domanda che rivela una ignoranza su quello che significa. “E che farà Dio dopo che il mondo sarà finito?”. Come se Dio realmente stesse in relazione col mondo. No, non é reale la relazione di Dio con il mondo. Dio non sta riferito o relato alla creazione. Noi siamo in re-lazione con Dio, assoluto, necessario.

La creazione dobbiamo intenderla non come un atto magico, non alla maniera di Platone, che pensava a Dio come ad un “demiurgo”, un Dio minore, che prendendo a modello le idee perfette, forgia la materia, che da sempre esiste e si mette a creare. Allora tutte le cose che esistono sono una bassa imitazione di questo mondo delle idee che è il Dio stesso, il demiurgo. Una concezione tecnica della creazione, una concezione tecnologica, una produzione. Platone ebbe l’accortezza di scaricare quest’azione tecnica, tecnologica, sul demiurgo, un Dio minore. Ma noi cristiani non abbiamo consapevolezza di questi Dei minori. Perciò la creazione risale direttamente a Dio, ma non sotto forma di produzione tecnica, bensì di relazione assoluta che noi abbiamo con Dio e perciò tutto ciò che esiste, esiste da sempre e il fatto che si manifesti ora qui, ora lì dipende solo dalla struttura interna di quello che esiste: il tempo e lo spazio.

Ma in Dio il tempo e lo spazio non ci sono. La relazione con Dio è assoluta. Per cui tutta quella narrazione del primo capitolo del “Genesi” – e anche del secondo sulla creazione dell’uomo – non vuole per niente parlare della creazione, sta soltanto mettendo in veste cosmica o cosmologica dei problemi che sono decisamente umani. Problemi che derivano dall’essere umano proprio perché ha questa idea dell’assoluto dentro di sé. Non si fa teologia. La teologia è il tentativo di conoscere Dio, ma l’Assoluto è di per sé inconoscibile. Una sola cosa sappiamo dell’Assoluto: che è assoluto.

La nostra più che teologia è una “teopatia”, cioè abbiamo dentro di noi questo male che si chiama “idea dell’assoluto”. La storia degli esseri umani è la storia di questo movimento dell’idea di assoluto che sta dentro di noi.

Per cui abbiamo una “teopatia morale”, che è tutto l’opposto dell’etica; abbiamo la “teopatia dogmatica” che riguarda le verità di fondo, di cui vi sto parlando, e una “teopatia psicoanalitica”. Ecco i tre corsi che stiamo portando avanti quest’anno.

In che senso i libri della Sacra Scrittura sono rivelati? Sono rivelati non perché mi fanno conoscere Dio, ma perché Dio, attraverso questi libri sacri, mi permette di conoscere meglio me stesso, cioè di avere consapevolezza delle dinamiche in cui mi trovo coinvolto e che formano la struttura portante della mia esistenza. Sono testi privilegiati quelli dell’Antico Testamento, perché mi enucleano i tratti fondamentali della dinamica di questo movimento dell’idea dell’assoluto dentro di me.

Vi dissi che i primi capitoli del “Genesi” sono dei testi mitici. Il mito è un racconto che nasconde qualcosa, che non vuole far sapere tutto. Sono, quelli del primo capitolo del “Genesi”, “miti di fondazione”; che riguardano, cioè, il fondamento dell’esistenza umana e del rapporto con gli altri. Se prendiamo i miti di altre religioni ci accorgiamo che sono “miti serrati”, cioè che impediscono la presa di coscienza dei meccanismi  che stanno alla base dell’avventura umana. La grandezza dei miti della Sacra Scrittura invece, sta nel fatto che da una parte nascondono e dall’altra parte, attraverso delle aperture, spiragli sottilissimi, ti danno la chiave di lettura delle dinamiche, dei meccanismi, delle strutture portanti di quella che è la storia umana.

Perciò quel primo capitolo del “Genesi” sulla famosa creazione, risponde a dei bisogni profondamente umani.

Fate attenzione quando trovate nella Sacra Scrittura e soprattutto nel primo capitolo del Genesi questo movimento di separazione delle cose. Il separare, il mettere degli argini non è altro che un impedire che il desiderio vada da una parte all’altra, che straripi, perché il desiderio quando si mette in movimento non conosce più argini, non conosce confini. Tutto diventa suo. Il desiderio è uno dei principi dell’esistenza umana. Per questo dico sempre di leggere i Dieci Comandamenti partendo dall’ultimo: “Non desiderare la roba d’altri”, “Non desiderare la donna d’altri” (Es 20,17). Dal desiderio parte tutta l’avventura umana e al desiderio si cerca di mettere degli argini, dei freni.

Le società, le culture antiche erano specializzate nel saper mettere degli argini e freni, perché sapevano che quando il desiderio dilaga succede il “diluvio universale”. L’acqua del diluvio universale è una delle immagini più vere, profonde, chiare di questo desiderio che dilaga, invade tutto, che rompe ogni argine, che confonde ogni differenza. Questo è il significato del diluvio. Questo desiderio che dilaga e che distrugge tutta l’umanità.

E qual è l’oggetto del desiderio? Il desiderio inizia sempre a tre per finire a due. Cominciamo a desiderare tutti la stessa cosa, poi, alla fine, quella cosa che desideriamo conta poco o niente e quello che desideriamo è l’altro, il nostro rivale, il nostro nemico, che da una parte è per noi un modello da imitare, dall’altra parte è colui che ci impedisce di essere al di sopra di lui. Quindi il mio modello, cioè colui che mi sta di fronte, diventa mio rivale.

Immaginate un maestro e un discepolo. Il maestro è così bravo che i suoi discepoli imparano bene.

Uno di questi discepoli impara più rapidamente e più velocemente del maestro; il maestro si accorge dopo un po’ di tempo che non ha più niente da insegnare a questo discepolo. Il maestro vede il discepolo alla pari. Allora cosa deve fare se vuole rimanere maestro? Deve inventare una sciocchezza qualsiasi per tenere il suo discepolo sempre un gradino al di sotto di lui. A quel punto il maestro per il discepolo è diventato modello, ma allo stesso tempo è rivale. Ecco l’ambiguità della figura del maestro. Per cui il discepolo sentita la chiacchiera – che non sa essere chiacchiera – che il maestro ha messo in giro per stare al di sopra di lui, cosa farà? Imiterà la chiacchiera per imparare dal suo modello che al tempo stesso è rivale. [Alla fine si sparano uno con l’altro e finisce la storia].

Le società antiche avevano dei sistemi, dei mezzi, per evitare questo problema del doppio. Infatti, nell’esempio fatto prima si arriva ad un punto in cui il maestro e il discepolo non differiscono in niente, si copiano continuamente la capacità di mettersi l’uno al di sopra dell’altro. Quindi allo stesso tempo il maestro finisce di essere maestro e quasi comincia ad imparare dal discepolo.

Questa si chiama “rivalità mimetica”, cioè rivalità di imitazioni, per cui l’oggetto del desiderio del maestro diventa il discepolo e l’oggetto del desiderio del discepolo è il maestro. Ma due uguali non ci possono stare, altrimenti si ammazzerebbero, cioè non posso permettere che dinanzi a me ci sia il mio doppio.

La paura del doppio era una paura avvertitissima nelle culture antiche, proprio perché sapevano che il doppio poteva scatenare delle rivalità mimetiche enormi. Allora si cercava di evitare il problema mettendo dei divieti. In India, per esempio, la società era – ed è ancora – divisa in caste, per cui chi appartiene ad una casta non può venirne fuori e passare ad un’altra casta. Tutto ciò ha la funzione di conservare la società, cioè di evitare la disgregazione sociale, la lotta di tutti contro tutti, cioè di evitare le rivalità mimetiche: contadino sei nato e contadino rimarrai!

Questa mentalità ha resistito fino a 30-40 anni fa. Erano dei sistemi di protezione che le culture antiche si davano proprio per evitare il dilagare del desiderio. Poteva succedere, però, che queste barriere venissero infrante e che cominciasse all’interno di una comunità umana la lotta di tutti contro tutti, perché il desiderio ormai dilagava ed ognuno diventava il doppio dell’altro. Si ricorreva, allora, ad altre soluzioni. Usavano la “risoluzione vittimaria”: se nel gruppo nascono delle liti, concentriamo tutte le nostre rivalità su una persona, che non c’entra niente. Nelle società antiche funzionava la risoluzione vittimaria. Si individuava un terzo sul quale si riversava la rivalità mimetica. Il terzo diventava il salvatore della comunità, cioè era cattivo e buono allo stesso tempo. Cattivo, perché era lui il responsabile, buono, perché attraverso la sua morte si salvava tutta la comunità. Inoltre, dopo il sacrificio di questo pover’uomo che veniva investito di tutta la responsabilità, ognuno si impossessava di un suo pezzo, perché in quel pezzo c’era la salvezza. Come fosse una specie di comunione. Il capro espiatorio assurgeva al ruolo di divinità e veniva chiamato “farmacon”.

Il “Farmacon” era un qualcosa di negativo e di positivo allo stesso tempo, di male e di bene.

Un esempio è la storia di Edipo. La peste finale è la punizione degli Dei. Questa non è altro che la rivalità mimetica che si diffonde dentro Tebe. Un veggente informa i tebani della causa della peste, cioè l’incesto. Ma c’è un divieto di incesto. Così, quando si scopre che Edipo è il colpevole, questi viene accecato e mandato fuori Tebe. La tematica del doppio non è assente nella Sacra Scrittura, anzi è proprio la Sacra Scrittura che la svela in maniera mitica. È proprio la Sacra Scrittura che toglie tutte le possibilità di continuare ancora col mito e con la risoluzione dei divieti o con la risoluzione vittimaria. Ci pone le cose dinanzi così come sono.

Dove è presente il “doppio” nei testi dell’Antico Testamento? È presente ovunque.

Nel primo capitolo del “Genesi” è scritto: “E Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza,…” (Gn 1,26). Alla luce di questa ipotesi del doppio, l’immagine di Dio non è altro che il doppio di Dio. L’uomo e Dio si trovano in un rapporto di doppio. L’uomo avverte Dio come suo alter ego, come il suo modello e rivale. Se Dio viene inteso come il doppio dell’uomo, con cui l’uomo si confronta continuamente in maniera ossessiva, allora possiamo spiegarci tanti passi della Sacra Scrittura.

Feuerbach spigava il rapporto con Dio dicendo che noi non facciamo altro che proiettare in Lui tutto quanto di bene c’è dentro di noi. Siccome non siamo capaci di portarlo, il bene, lo trasferiamo in Dio. Quindi l’idea di Dio, secondo Feuerbach, è stata molto positiva, importante, perché ha permesso di coltivare questa idea dell’assoluto, di tenerla viva, vivace – diceva lui. Ma adesso è tempo per l’uomo di riprendersi ciò che è suo, quindi che abolisca Dio, che svuoti Dio, che neghi la sua esistenza e si riprenda ciò che è suo e che per debolezza aveva alienato in Lui.

Questo rapporto di doppio, di rivalità mimetica, di imitazione e rivalità tra l’uomo e Dio, sta a fondamento della Sacra Scrittura.

Attenzione, nel mito della Sacra Scrittura non è presentato solo Dio come modello e rivale dell’uomo, ma anche l’uomo come modello e rivale per Dio stesso. Quando Dio dice: “Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre! Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto.” (Gn 3,22-23); Dio teme che l’essere umano diventi come Lui e quindi suo rivale; non perché le cose siano andate così, ma perché la Sacra Scrittura racconta come funziona l’idea di Dio, di assoluto, dentro di noi. Siamo noi stessi che poniamo Dio come nostro modello e rivale e siamo sempre noi che pensiamo che Dio ponga noi come suo modello e rivale. Per cui c’è una lotta tra Dio e l’uomo. Basta leggere quel racconto, molto sintomatico, sulla fondazione del popolo ebraico, la famosa lotta di Giacobbe con Dio (Gn 32,23-33). Giacobbe cambiò nome: fu chiamato “Israele”. “Israele” vuol dire “colui che ha combattuto con Dio” (Gn 32,29).

Racconta il mito biblico che in una notte tremenda si avvicinò un’ombra – un suo doppio – (Giacobbe era figlio di Isacco, capostipite dei dodici patriarchi che fondarono le dodici tribù di Israele, quindi siamo alla costituzione del popolo d’Israele): questa divinità sotto forma umana, sotto forma di angelo, per tutta la notte lottò con Giacobbe; si colpivano l’uno con l’altro e Dio colpì Giacobbe sul nervo sciatico, infatti Giacobbe rimase zoppo. L’autore biblico dice: “Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico” (Gn 32,33). Quindi Giacobbe si prende una botta sul nervo sciatico e gli rimane il segno. Ma anche a Dio rimane il segno, perché è costretto a benedire Giacobbe, il quale aveva rubato la primogenitura al fratello Esaù mediante la famosa vendita del piatto di lenticchie – (Gn 25,29-34) – e la benedizione da parte del padre Isacco camuffandosi come il fratello (Gn 27,1-29).

Esaù e Giacobbe, anche qui la lotta dei doppi: la primogenitura toccava ad Esaù, perché era nato prima, ma Giacobbe con uno stratagemma – vendendo un piatto di lenticchie ad Esaù che era affamato – ruba la primogenitura. Esaù vende la primogenitura per un piatto di lenticchie.

Ma Giacobbe non può avere la benedizione dal padre, da Isacco, se non ingannandolo, facendogli quasi intendere di essere Esaù. Allora si mette addosso le pelli di un animale simulando di essere suo fratello. La confusione dei doppi.

Quindi, queste rivalità mimetiche dei doppi sono la struttura di base della Sacra Scrittura. Questo è il modo di leggere la Sacra Scrittura che ci svela a noi stessi, ci fa capire quali siano le dinamiche, le strutture sottese a tutta la psicopatologia della vita quotidiana. Adamo ed Eva, Caino e Abele, la torre di Babele, la rivalità mimetica tra Dio e gli esseri umani che vogliono costruire una torre altissima quanto Dio.

Questo problema del doppio, della rivalità mimetica, è la struttura portante in tutto l’Antico Testamento, il quale è rivelato da Dio, perché ci permette di capire che cosa noi siamo veramente, come funziona dentro di noi l’idea di Dio stesso, l’idea dell’assoluto, come va la nostra teopatia e in che modo – Gesù ci insegna – questa teopatia possa essere curata.

Sapete come si cura? Chi muore sulla croce? Muore Dio e muore l’uomo: finisce la rivalità mimetica, ognuno si arrende e si consegna all’altro; la morte sulla croce. Gesù è uomo e si arrende: come uomo rifiuta la rivalità mimetica; Dio si arrende e rifiuta la rivalità mimetica. Ecco perché la croce è centrale nel cristianesimo. La risurrezione non è altro che la soluzione non vittimistica o vittimaria di quello che è l’eterno problema del doppio: uomo-Dio e Dio-uomo.