Teologia 09 del 02.03.1998

I miti sono le favole originarie, le teorie originarie. Le teorie sono le favole che ci raccontiamo per non vedere le cose come stanno.

I miti sono le favole “sincroniche”. È importante ricordare la differenza tra sincronico e diacronico. Noi possiamo avere un approccio all’esperienza di tipo sincronico, oppure diacronico.

L’approccio sincronico è quel colpo d’occhio che permette di intuire immediatamente  la struttura di fondo di tutta una serie d’eventi, i quali si ripetono sempre allo stesso modo.

Lo sguardo diacronico, invece, è lo sguardo “solito”, che permette di dare un giudizio soltanto dopo che è stata esaurita la conoscenza dei fatti particolari, quindi del fatto A, B, C, D, E, F…, e siccome molto spesso i fatti sono infiniti, è chiaro che per onestà tante volte il giudizio non si può dare se non si aspetta l’ultimo fatto. I diacronici danno sì dei giudizi, ma sono giudizi sottoposti a revisione continua, perché non si è colta la struttura che permette di capire perché le cose vanno in un certo senso invece che in un altro.

Noi esseri umani ci distinguiamo in diacronici e sincronici: in alcuni c’è una capacità sincronica maggiore e diacronica minore e viceversa. I sincronici sono quelli che vanno subito all’essenziale; i diacronici sono quelli più analitici, che hanno bisogno di fare un percorso più lungo, devono percorrere tutte le tappe per arrivare ad una valutazione e ad un giudizio.

La parola “sincronico” deriva dal greco “sin-kronos”. “Sin” vuol dire “insieme”, “kronos” vuol dire “nel tempo”. “Diacronico” – “dia-kronos” – vuol dire “attraverso il tempo”.

Chi è esperto di musica sa che questa è fatta di tre elementi: il tempo, la melodia e l’armonia.

La melodia è diacronica, lo sviluppo di una nota melodica; l’armonia è sincronica, una nota sull’altra. Il tempo è la struttura di base che permette all’armonia e alla melodia di stare insieme.

Questi due elementi – diacronico e sincronico – li troviamo in tutta l’esperienza umana. Il sincronico è solitamente saggio; il diacronico solitamente è pentito, perché deve capire tutti i fatti e la loro successione nella storia, così che a metà della serie è di una convinzione, alla fine della serie è di un’altra convinzione e quindi solitamente si pente. Invece il sincronico, in grazia di Dio, capisce in un istante, intuisce la struttura di fondo, perciò diventa saggio e quindi non ha più bisogno di pentirsi.

Ci sono dei problemi per i sincronici. I sincronici socializzano difficilmente, perché parlano poco. La persona sincronica non usa tante parole, non gli va di fare troppi discorsi inutili, prova un fastidio più o meno grande nello stare con persone diacroniche, cioè con persone che se non parlano, se non sono analitiche fino all’osso, non sono soddisfatte. I sincronici, poiché sono capaci di stare in silenzio per la loro abilità nel cogliere l’essenziale, hanno un senso di fastidio a stare con le persone diacroniche e questa vicinanza è un atto di penitenza per loro.

Il mito è un’“apertura”, infatti il suo significato è sincronico. I primi capitoli del “Genesi” sono storia, ma non in senso diacronico, bensì in senso sincronico. Attenzione a questa differenza. Noi purtroppo in italiano usiamo solo un termine – “storia” – per indicare sia la storia in senso diacronico sia la storia in senso sincronico. Nella lingua tedesca, invece, esistono due termini per indicare questa differenza: “historie” in senso diacronico, “geschichte” in senso sincronico.

I miti di fondazione che troviamo non solo nella Sacra Scrittura, ma anche nei testi sacri delle altre religioni del mondo, sono storia, ma non in senso diacronico, non sono cioè il racconto di fatti realmente avvenuti, bensì di fatti messi in forma di strutture sincroniche che permettono di capire perché le cose vanno in un determinato modo.

I miti che si trovano nella Sacra Scrittura sono storie in senso sincronico, cioè “coglimento delle strutture di fondo” che permettono di spiegare il perché, il senso, la direzione che prende la storia umana. La differenza fra gli altri libri sacri e la Bibbia sta nel fatto che in quest’ultima i miti vengono psicoanaliticamente sottoposti ad un opera di “demitizzazione”. Contrariamente a quello che si dice, la Bibbia è un libro mitologico.

In realtà nella Bibbia c’è tutto un lavoro di demitizzazione: basta leggere questi brevi racconti – primi capitoli del “Genesi” – per rendersi conto che l’autore sacro prende in giro tutti questi miti. Innanzitutto si tratta di miti presi non dal mondo ebraico, ma dalle culture circostanti. L’autore sacro esercita tutto il lavoro di demitizzazione.

È chiaro che diventa difficile capire l’ironia che c’è in questi primi capitoli del “Genesi” se già abbiamo una precomprensione di questi miti, risultato di ciò che ci hanno raccontato fin da piccoli. Se da piccoli ci hanno sempre detto che il primo libro del “Genesi” ci racconta come Dio ha creato il mondo e se si va avanti con queste precomprensioni, non si capiranno mai gli elementi di critica, di ironia che sono sempre presenti in questi passi, presentati invece come testimonianze dell’opera di Dio, come una documentazione dell’opera creatrice di Dio quando in realtà non lo sono. E qual è il risultato? Il risultato è che questo primo capitolo del “Genesi” racconta di come Dio ha creato il mondo, della grande forza creatrice di Dio e tutte queste storie: è chiaro che sulla scorta di questi insegnamenti sarà impostata una “teologia della creazione”. La teologia della creazione porterà poi a degli sviluppi. La teologia della creazione diventerà poi la “teologia delle realtà terrestri”. La teologia delle realtà terrestri diverrà la “teologia della politica” e quella della politica diverrà “teologia della liberazione”; sono tutte conseguenze.

Se quel primo capitolo del Genesi mi parla della bontà della creazione, allora verrà fuori una teologia della realtà terrestre, cioè della bontà del creato e quindi verrà fuori una “teologia del lavoro”.

Che cos’è il lavoro? Negli anni del Concilio Vaticano II, quando i testi di teologia presenti non valevano più e quelli nuovi non esistevano, i teologi cominciarono ad inventarsi qualcosa di nuovo. Che cosa s’inventarono? S’inventarono delle teorie che, nel loro intento, sarebbero dovute andare d’accordo con quella che era una visione mondana delle cose. Il Mondo che cosa richiedeva? Richiedeva un Cristianesimo che fosse in funzione sua. Allora si cercava un accordo tra fede e Mondo. Il punto centrale del Concilio Vaticano II fu l’enciclica “Gaudium et Spes”. Le encicliche o i documenti papali prendono il nome dalle prime parole del testo. Questa enciclica cominciava con le parole “Gaudium et Spes…”: “Le gioie e le speranze dell’umanità che la Chiesa fa proprie…”, ecc. C’era molta attenzione sulla conciliazione tra fede e Mondo. È un documento piuttosto enfatico, un documento che non mette ben in risalto le difficoltà di tale conciliazione. Mancava, infatti, una teologia che avesse chiaramente e seriamente sviluppato un concetto di “Mondo”. Si parlava spesso allora di questo dialogo aperto tra Chiesa e Mondo.

Cos’è, quindi, la teologia della creazione? In quel periodo molti professori di teologia insegnavano che il lavoro dell’uomo è la continuazione dell’opera creatrice di Dio. Avveniva così una specie di “divinizzazione del lavoro” – oggi c’è la disoccupazione: cosa s’inventeranno, una teologia della disoccupazione?!?. Questo è il guaio di certe categorie sociali tipiche determinate socialmente: vengono elevate a divinità teologiche e se ne fa una teologia. Così si sviluppò la teologia del lavoro: mediante il lavoro l’essere umano si divinizza, perché porta al compimento l’azione creatrice di Dio. Ma siccome il lavoro non può essere scisso dalla politica è necessaria anche una teologia politica. Ma come è possibile parlare di politica non tenendo conto del fatto che essa è ancora debitrice del vecchio potere dell’autorità, dello sfruttamento delle classi, dell’egemonia di una classe sull’altra? Allora è necessaria la teologia della liberazione; e così di seguito come fossero scatole cinesi o matriosche, una nell’altra.

È chiaro che il sincronico le capiva subito queste cose. Il diacronico, invece, non le capiva e si divertiva ad aprire sempre più le scatole cinesi. Questo perché si prendeva il primo capitolo del “Genesi” e lo si riteneva importantissimo come inno alla creazione. Perché questo era possibile? Perché non lo si traduceva bene, perché non ci si rendeva conto che veniva dalle culture circostanti. In questo mito è presente quella che è la struttura di fondo di tutte le culture umane: il dualismo, la dualità, il doppio. Prima c’era il vuoto, questo vuoto immenso – l’Apeiron di Anassimandro – e da questo vuoto incominciano a nascere le coppie: le tenebre e la luce, il mare e la terraferma, gli animali del mare e gli animali della terra, la luce della notte e la luce del giorno. Tutte coppie. Pensate alle filosofie orientali, cinesi, e al concetto di “Yin” e Yang”. “Yin” sta ad indicare tutte quelle forze che hanno una direzione centrifuga. “Yang” tutte quelle forze che hanno una direzione centripeta. “Yin” le energie leggere, “Yang” le energie pesanti. Ancora un dualismo; il buono e il cattivo, la luce e le tenebre, il famoso codice binario. Il codice binario è il codice più elementare con il quale sistemiamo le cose. Per esempio: una persona che non è inquadrabile nella categoria del buono o del cattivo ci preoccupa, perché non riusciamo a definirlo, a inquadrarlo subito: buono o cattivo, male o bene, giorno o notte. Questa necessità di distinguere le cose, di tenerle ben catalogate, questa necessità di ordine risponde a motivi di difesa dell’essere umano, perché soltanto se le cose sono ben ordinate secondo delle serie coerenti allora possiamo guardarle ed affrontarle. Abbiamo visto la filosofia dello “Yin” e “Yang”: le due forze devono stare insieme e l’una si definisce attraverso l’altra. La dialettica di Eraclito (filosofo greco): la guerra e la pace, cioè tutta l’armonia dell’universo attraverso la lotta degli opposti.

L’idea primitiva è questa ed è presente nel mito della creazione, solo che quando si arriva a Dio c’è un problema: Dio può rimanere solo? Anche Dio deve avere il suo doppio. Quando Dio creava le cose ne faceva una e subito dopo creava il suo opposto: la notte e il giorno, le tenebre e la luce, la terraferma e il mare, gli animali del mare e quelli della terra, le piante del mare e le piante della terra. [Poi Dio disse: “Adesso voglio creare la cosa più intelligente” e creò il “professore universitario”; poi disse: “devo creare l’opposto, il più cretino” e creò il “collega”. Infatti se voi chiedete – in separata sede – ad un professore universitario chi è più cretino, la risposta è: “il collega”. Lo stupido però non sa che anche lui è collega.]

Allora, essendoci Dio ci deve essere l’opposto di Dio. Qui comincia l’ironia e la finezza della Sacra Scrittura: se si legge la Bibbia tradotta in italiano c’è scritto “Dio”; se invece si va a leggere il testo in aramaico c’è scritto “Eloim”, che non significa “Dio”, ma “gli Dei”, cioè il sostantivo è al plurale. C’è, allora, una specie di concilio fra questi Dei, che si dicono: “dopo aver fatto tutte queste coppie facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”.

Quando mi insegnavano queste cose dicevano che la dignità dell’uomo sta nel fatto che esso è “immagine e somiglianza di Dio”. E quando si è diacronici, quando non si hanno gli strumenti per essere sincronici, è facile crederci. C’è tutta una teologia dell’immagine e somiglianza di Dio, secondo la quale la dignità dell’uomo riposa proprio nel fatto che lui è immagine e somiglianza di Dio. Bisogna vedere che cosa significa “…a immagine e somiglianza di Dio”. Significa che l’esatto opposto di Dio è l’umanità: Dio è una cosa, l’uomo è esattamente l’opposto. Quando vi mettete davanti allo specchio vi vedete così come siete in realtà? No! Vi vedete esattamente al contrario: per cui la vostra destra è la sinistra dell’immagine nello specchio e la vostra sinistra è la destra dell’immagine nello specchio. È impossibile guardarsi così come si è, perché lo specchio ci rimanda un’immagine che è l’esatto opposto di come noi siamo. Io non mi vedo così come sono: mi vedo nello specchio e tutt’al più come voi vedete me. L’immagine nello specchio è l’“altro”, è il mio doppio. Quando parlo di immagine penso subito allo specchio e penso al doppio, alla doppiezza, alla dualità, all’unità che si è scissa; e quando l’unità si scinde non c’è santo che possa ricostituirla. Io non posso più appropriarmi dell’immagine che sta nello specchio, perché è opposta a me, mi sta di fronte, è come l’altro mi vede, non come io mi vedo e quindi è inutile che vi guardiate allo specchio. Ma io lo so perché vi guardate allo specchio: perché sperate di capire come gli altri vi vedono. Quando vi guardate allo specchio state pensando: “così mi vedono gli altri!”. È giusto, è così, ma non come voi vi vedete, ma come gli altri vi vedono. Questa è la tirannia della specularità. Ciò che è sinistra per voi è destra nello specchio, ciò che è destra per voi è sinistra nello specchio. L’immagine nello specchio è l’“altro”: perciò quando si dice che Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza vuol dire che Dio crea il suo opposto. Noi siamo la dualità, il doppio di Dio e questo è per me un qualcosa che mi esalta e mi atterrisce, perché il compito che mi affida è un compito strano. Se si prende la Bibbia in lingua italiana c’è scritto: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra»” (Gn 1,27-28). Da come la scena è descritta sembra che Dio abbia creato prima il regno e poi il suo re – l’uomo – perché lo domini. Ma la traduzione è falsa e sbagliata, è una traduzione accomodante: nel testo originale i verbi sono “rada” e “tapa” che significano “schiacciare” e “calpestare”. Il compito affidato all’uomo è quello di calpestare e schiacciare. Ecco l’essere umano doppio di Dio, contrario di Dio, che si mette a calpestare tutto. Altro che teologia della creazione, altro che teologia della realtà terrestre, altro che teologia del lavoro, altro che teologia della politica e altro che teologia delle liberazione! Dopo la fase della creazione, dopo che Dio ha creato tutti i doppi compreso il suo stesso doppio, l’autore sacro completa, col gioco dell’ironia, il mito: “Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro” (Gn 2,2). Sembra che Dio si penta di aver fatto quello che ha fatto e pensi che la cosa migliore è quella di stare a riposo. Già nei miti delle culture circostanti esisteva questo concetto del doppio della divinità. Per esempio, c’è una divinità indù che viene raffigurata con in una mano un serpente, chiamato “kundalini”, che significa “energia”, e nell’altra il fuoco. Allora, con l’energia crea, con il fuoco distrugge. È il famoso binomio su cui tanto insiste il filosofo tedesco, vissuto nella seconda metà dell’ottocento, Friedrich Nietzsche: il “mito dell’eterno ritorno”. Tutto viene creato, tutto viene distrutto. L’energia crea, il fuoco distrugge.

Ora, dinanzi a tutto questo mito cosa fa l’autore sacro? È meglio che Dio se ne vada a riposo, così almeno la smettiamo. Qual è il valore antropologico del fatto che Dio se ne va a riposo? Che anche tu il settimo giorno devi andare a riposo e per questo gli Ebrei proibivano categoricamente di lavorare il Sabato. Il Sabato non doveva essere fatta opera o lavoro alcuno, perché anche loro avevano questa concezione. Il “fare” dell’essere umano non è per produrre qualcosa, ma per distruggere quello che c’è. Quindi almeno una volta la settimana tu, uomo, smetti, esci dal tuo fare, riposati e prendi esempio da Dio che il settimo giorno ha capito di averla fatta grossa e si è messo a riposo. Quindi Dio attraverso il riposo prende le distanze da tutto ciò che ha fatto: ordinato prima, disordinato poi, creazione e distruzione.

Prendiamo il mito di Noè; dice la Sacra Scrittura: “E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Singore disse: «Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito d’averli fatti»” (Gn 6,6-7). Dio si pentì di aver fatto l’uomo e volle distruggerlo. Per cui, vi dico sempre, il fine della vita non è il lavoro, ma il riposo; il lavoro serve soltanto se non ci va più di riposare. Quando mi vengono i grilli per la testa mi faccio una bella dormita – come Dio il settimo giorno – così non faccio peccati, perché chi dorme non fa peccati. Chi sta sveglio fa peccati e da fastidio al prete che lo deve confessare!?!

L’immagine del Dio che riposa non è presente in alcun mito di nessun’altra cultura: l’idea del Dio che si ritira, che si va a riposare e dell’uomo che deve fare lo stesso è solo e tipicamente dell’autore della Bibbia. Basta tradurre quei verbi che vi ho detto prima, nel senso di “dominare” invece che di “calpestare” o “schiacciare”, per passare dall’ironia dell’autore delle Sacre Scritture alla teologia della creazione, del lavoro, della politica, della liberazione.

Ma allora il lavoro a che serve? La più grande cosa l’ha detta San Paolo il quale non ha mai fatto una teologia del lavoro, non ha mitizzato il lavoro e non ha mai visto nel lavoro la grandezza dell’essere umano, la realizzazione dell’essere umano, come spesso si dice e come diceva Marx: “attraverso il lavoro l’uomo umanizza la natura e la natura naturalizza l’uomo”. Che grande visione – si vede che Marx doveva aver lavorato poco per dire queste cose, perché se avesse lavorato veramente, altro che umanizzazione! Le cose più belle, invece, le ha dette San Paolo: “chi non lavora non mangia”, cioè, voleva dire: “tu devi lavorare per mangiare, non perché nel lavoro ti realizzi; tu ti realizzi solo quando ti riposi, perché Dio dopo aver visto tutto quello che aveva fatto, tutte le coppie che aveva creato disse: “adesso basta, è meglio che mi riposi”.

Il problema del doppio, della dualità, è presente anche nei miti dei capitoli successivi del “Genesi” (II, III capitolo), quando si parla della creazione della donna. E anche qui c’è un’opera di demitizzazione da parte dell’autore. Prima Dio crea Adamo, poi gli toglie una costola e crea la donna, Eva, ecc. Anche qui c’è la dualità, l’unità che si scinde. Poi c’è tutta la storia del peccato originale, della conoscenza del bene e del male – un altro doppio. Si parla sempre di una dualità, di un doppio, che è sempre presente e che non può mai venir meno.

Quando si intende il lavoro come realizzazione si entra in una spirale di “fare” continuo. Dio si riposò: che cosa intelligente!

Attenzione a questi primi capitoli del “Genesi”: non sono di facile lettura, richiedono una connotazione culturale. Attenzione anche all’etimologia delle parole.

Guardate, io non lo so cosa abbia fatto Dio: è proprio il concetto di creazione che deve essere rivisto, perché sa di strumentale; ciò che ne viene fuori è la figura di un demiurgo, di un artigiano che costruisce i suoi oggetti. La storia di questo Dio che si mette a creare e dell’uomo che attraverso il lavoro prosegue l’opera del Creatore, l’uomo che si divinizza col lavoro, ecc: penso che ad un certo punto si possa fare a meno di questa favola. È troppo infantile vedere questo Dio che crea, crea, crea: è un’immagine che non va, è un linguaggio troppo infantile. Purtroppo oggi i teologi non hanno la capacità di andare a fondo nella questione, non hanno una solida base e struttura filosofica, sono disabituati a studiare veramente la filosofia. C’è molto lavoro da fare sulla teologia della creazione umana.

C’è un filosofo dei giorni nostri che vi consiglio di leggere. Si chiama Emanuele Severino. Pensatore difficile, perché è l’unico che fa veramente filosofia, oggi, in Italia; l’unico che può permettervi di rivedere queste categorie teologiche. Severino prima insegnava filosofia all’Università Cattolica di Milano; poi cominciò a spiegare la creazione in maniera un po’ diversa e così fu allontanato dall’Università Cattolica, perché non era in linea con gli altri teologi. In Italia è l’unico che faccia filosofia, il resto fa storia della filosofia, o comunque categorie debolucce della filosofia, ordinaria amministrazione.

La parola “fede” – ripeto – significa “chiarezza”, vuol dire “ciò che è evidente”, equivale al latino “patet”. Contrariamente a quello che si pensa, “fede” non significa “oscurità”, ma “chiarezza” e la filosofia ti permette di fare chiarezza. Sotto questo aspetto fede e filosofia sono la stessa cosa, svelano le strutture di fondo, le strutture essenziali delle cose. Fede significa portare l’intelligenza dove è possibile.